28 agosto 1861.
L'incendio di Casa Tarino a Torino.
di Michele Sforza
Nella notte del 28 agosto 1861, una grave sciagura s’abbatté sulla città. L'incendio della cosiddetta casa Tarino, dal nome del proprietario Luigi conte Tarino, sita in via Po al n. 18. ora n. 39, angolo via Montebello.
Sulle cause dell’incendio furono avanzate molte ipotesi, ma una precisa quanto dettagliata perizia compiuta da una commissione d’inchiesta istituita lo stesso giorno dal sindaco, spazzò il campo da ogni sorta di dubbi ed illazioni che sorsero a seguito della sciagura. Purtroppo il numero delle vittime fu altissimo; ben diciassette persone persero la vita tra i crolli delle volte e tra le fiamme rimaste padrone del campo per alcune ore. Tutto ebbe inizio da un piccolo incendio partito dal laboratorio di ebanisteria di un certo Pietro Bertinetti, avvenuto verso la mezzanotte circa del 27 agosto. La tarda ora permise al fuoco di agire indisturbato fino alle 3 circa. Quando ormai le fiamme, alimentate da un forte vento di tramontana, avevano coinvolto quasi l’intero stabile, solo allora un tardivo passante si avvide di ciò che stava accadendo, ma il fuoco aveva coinvolto gran parte dello stabile dal pianterreno al tetto e minacciava persino di estendersi ai palazzi confinanti, precisamente alla Manifattura Tabacchi e al laboratorio di cera dei fratelli Belmondo. Le Guardie del Fuoco, avvertite purtroppo tardivamente, giunsero al gran completo, oltre gli ufficiali e il comandante Gabetti, verso le 4,15 con tutte le pompe disponibili che erano nove. Altre dieci pompe giunsero tra le 5 e le 6, di cui quattro delle Ferrovie dello Stato, quattro del Corpo d’Artiglieria, e le ultime due di proprietà della Regia Fabbrica dei Tabacchi. Si iniziò così l’immediata opera del taglio del fuoco per impedirne la propagazione. A dare soccorso si unirono anche i fanti della Brigata Reggio, i carabinieri della 1° e 14° Legione, gli artiglieri del 1° e 2° Reggimento e molti altri soldati armati e disarmati. La confusione che si generò fu tanta; per la mancanza di un’unica unità di controllo e di un preciso disegno di soccorso, ognuno seguiva il proprio istinto. Questo si rivelò estremamente pericoloso, infatti qui cominciarono i primi seri guai. Il fuoco ormai padrone del campo, procedeva inesorabilmente da piano a piano. Le volte, indebolite dalla violenza del fuoco e appesantite dalle strutture crollate, a loro volta rovinavano su quelle sottostanti. Il primo cedimento delle strutture si ebbe verso le 6 nel laboratorio dell’orologiaio Francesco Granaglia da cui uscirono feriti Carlo Bertello e il pompiere Emilio Magnetti; il soldato Antonio Giacometti pur riuscendo anch’egli a guadagnare l’uscita, poco dopo stramazzò al suolo per le ferite mortali subite. Il maggior numero di vittime si ebbe in un locale attiguo, dove lo stesso crollo ostruì una porta, impedendo così l’evacuazione ad alcuni artiglieri e carabinieri impegnati nell’opera di trasferimento dei materiali e delle attrezzature del laboratorio. I poveri soldati perirono bruciati tra indicibili agonie. Altri, nel tentativo di portare loro aiuto, rimasero coinvolti dal successivo crollo della volta soprastante che, dopo uno schianto terrificante, si abbatté sui disgraziati trascinandoli anche nel crollo del pavimento, giù sino alle cantine sottostanti. Le vittime estratte, dopo molte ore di lavoro, furono in totale tredici; le altre vittime si ebbero alle ore 20 circa, per l’ironia della sorte che colpì l’orologiaio Gramaglia, proprietario dei locali in cui perirono le tredici persone. Col figlio Celestino e la domestica Maria Rossi, incuranti di una qualsiasi precauzione, tornarono tra i resti dell’abitazione rimanendo coinvolti nell’ennesimo crollo e allungando così la già grave lista dei lutti. L’8 novembre, a seguito delle terribili ustioni riportate, perì la diciassettesima vittima. Questi i nomi delle vittime:
La Commissione ha però potuto accertare che alle ore 4 1/4 circa tanto il capitano quanto il tenente dei pompieri erano sul luogo. Sebbene dalle ore 4 1/4 alle 6 siasi ivi trovato un sì considerevole numero di trombe idrauliche, queste però non poterono agire tutte, e colla rispettiva loro portata, per difetto d’acqua; imperocché risulta dalle assunte informazioni, che nei primordi, non essendovi acqua nelle vie, nei canali sotterranei, mancava un sufficiente numero di secchie per alimentare le trombe coll’acqua estratta dai pozzi delle vicine case; ma essendosi in breve tempo provvisto a tale mancanza, sia colla requisizione di secchie, sia colla provvista d’esse fatta da varii fabbricanti, sia con notevole altra quantità stata somministrata dal regio arsenale, oltre a quelle portate dal corpo dei pompieri civici, si poté, mediante le opportune catene, fatte specialmente per mezzo dei militari delle varie armi, e mediante eziandio l’acqua potabile ottenuta dalla rottura di alcuni tubi, somministrare sufficiente alimento d’acqua alle trombe, perché le medesime agissero con efficacia all’estinzione, e segnatamente a frenare e circoscrivere l’incendio alle parti non più salvabili: questo periodo durò dalle ore 4 1/4 sino alle ore 6 1/2, ora in cui, oltre all’acqua suddetta, si poté avere quella dei canali sotterranei e quella discorrente sulla via della Zecca. Dalle ore 6 in poi l’acqua fu abbondante, avendosene potutto ottenere rigurgito nei canali sotterranei alla via di Po, ed un notevole volume discorrente nel rigagnolo della via della Zecca, nella quale si procurò un artificiale allagamento mediante chiusa fatta attraverso la via stessa. Contribuirono efficacemente a mantener l’acqua alle trombe non meno di dieci delle botti a carro destinate all’inaffiamento della città, e novantatré brentatori accorsi pure per tale scopo sul luogo dell’incendio. Stato del materiale Si accusò cattivo stato nelle trombe, e segnatamente nei tubi, per cui corse voce non avere alcune di quelle potuto prestare efficace servizio. Dalle severe e minute indagini fatte dalla Commissione a questo riguardo risulta essere del tutto erroneo un tal fatto, epperciò insussistente l’accusa. Risulta, egli è vero, dalla pluralità delle fatte deposizioni, che alquanti dei tubi flessibili delle trombe, mercé i quali si doveva spinger l’acqua sul comignolo dei tetti più elevati, specialmente in principio della loro azione, perdevano l’acqua in più luoghi; ma risulta parimenti dalla universalità delle dichiarazioni, che siffatte perdite non furono che temporarie e di poca durata, alle quali tosto si riparava con fasciature e legature, ed anche, ove d’uopo, col cambio dei tubi. A chi non pratico dell’effetto che produce l’acqua nel suo introdursi e spingersi in un tubo asciutto di tela, era ovvio e naturale che paresse guasto il tubo al vederlo nel principio della operazione spicciar acqua in più luoghi; ma così non la pensò chi sa che i tubi di tela smaltiscono in principio alquanto dell’acqua in essi introdotta, cioè insino a tanto che essi siano ben inzuppati, e riescano, col gonfiamento del loro tessuto, chiusi gli interstizi esistenti tra i filamenti che li costituiscono. Se a questa natural causa si aggiunge ancora la grande pressione di due, e sino a tre atmosfere, cui la più parte di detti tubi dovette resistere, si ha ben donde per convincersi che le osservate perdite d’acqua fossero inevitabili. Ben e vero che alcune di dette perdite d’acqua sono derivate da rotture dei tubi; ma se alcune di queste possono ripetersi forse dal men solido e buono stato di qualche tratto di tubo, la più parte debbono però ritenersi prodotte da guasti fatti nei tubi stessi nell’atto pratico del loro maneggio, sia per violenti fregagioni, contro i muri, ringhiere e canali dei tetti, ma più specialmente dallo essere parte dei tubi stessi stati calpestati dalla moltitudine delle persone, e persino dal passaggio su essi delle ruote dei carri che conducevano l’acqua. Tanto è vero però che le lamentate perdite d’acqua furono non gravi e di corta durata, e che so- stanzialmente non riescirono di nocumento all’estinzione dell’incendio, che di ciò se ne hanno da competenti testimoni oculari moltissime dichiarazioni. Siffatte avarie e sperdimenti furono sofferti dai tubi tanto delle trombe civiche, quanto da quelli delle trombe dell’arsenale e della ferrovia, ed anzi alcune tanto delle une che delle altre dovettero smontarsi ed assettarsi sul luogo stesso dopo un qualche tempo d’esercizio, per essere i loro tubi e valvole stati ostrutti o resi inetti ad agire dalla melma ed altre materie introdottevi dall’acqua sucida dalla quale erano alimentate; e questo necessario smontamento e ripulimento delle trombe non compreso dagli astanti fu universalmente interpretato come derivante dal cattivo stato delle trombe, d’onde gli inopportuni ed insussistenti pubblici lamenti sullo stato del materiale. La Commissione inquirente, volendo tuttavia accertarsi coll’oculare ispezione del vero stato delle trombe civiche e dei loro accessorii, tosto dopo l’incendio le fece radunare nel gran cortile dei magazzini della Città presso i molini, e colà, dopo una rigorosa rivista e disamina di ciascheduna, le fece pure agire ad una ad una, e si convinse del buono stato di tutte e della soddisfacente loro attitudine ad un buon servizio. Riconobbe pure la Commissione il fondo di tubi flessibili che ritiene la compagnia delle guardie- fuoco, non che il numero delle secchie ed il numero e qualità delle scale, e si convinse che, se tali oggetti sono più che abbondanti per qualità e quantità nei casi più comuni d’incendio, non sarebbero forse sufficienti nei casi d’incendi straordinari e molto estesi, e mancherebbe poi un fondo di corde, che pur sarebbe necessario. Nell’occorso incendio però, come sovra fu detto, non si ebbe penuria di materiale, atteso il concorso d’ogni maniera prestato sia dall’arsenale, sia dal- l’amministrazione della ferrovia dello Stato, sia dai borghesi vicini al disastro, od accorsi sul luogo. La Commissione quindi è portata a conchiudere che nell’occorso incendio non vi fu difetto di soccorso per causa di cattivo stato del materiale recato sul luogo, o di mancanza del medesimo, e che insussistenti sono le diffusesi lagnanze a tale riguardo, essendo che le circostanze che vi diedero luogo non furono che fatti inevitabili e conseguenti dalla natura delle cose. |