Un po' di buonumore
I vigili del fuoco, è risaputo, hanno sempre posseduto una notevole dose di ironia verso gli altri e verso di loro. Soggetti dall’indole goliardica che difficilmente lascia indenne anche il più corrucciato e malinconico dei pompieri.
Questo comportamento trova sicuramente una ragione nel tipo di lavoro. Dalle tante ore trascorse con i colleghi, che portano tutti a conoscere, gli uni degli altri, pregi e virtù, ma anche vizi, difetti, tic e segreti quasi inconfessabili, ma, soprattutto, dallo stress professionale al quale il vigile è sottoposto giorno dopo giorno. Conoscere il dramma umano e viverlo molto da vicino, alla fine quella sofferenza, seppur latente, ti entra dentro e se non si è accorti ti plasma il carattere. E allora quale miglior antidoto se non quello di sdrammatizzare con una battuta, uno scherzo? Beninteso non si scherza mai sulla sofferenza della gente; questo non appartiene all’armamentario del pompiere. Però dare fondo al personale repertorio di goliardate giovanili e meno giovanili e agli interventi curiosi vissuti a decine, quello si che si fa. Un tempo, ma ancora oggi seppur in forma diversa, al ritorno da un soccorso difficile e coinvolgente emotivamente, non trovi uno psicologo che ti dia una mano a rielaborare il vissuto; trovi invece un collega disposto ad ascoltarti, perché lui prima di te ha provato la medesima condizione interiore. E magari quel collega alla fine tira fuori un racconto che porta a stamparti sul tuo viso un sorriso, un’apertura sulla sofferenza interiore che ti sta divorando. Poi c’è la vittima sacrificale che non è sempre il più “tonto” e credulone, tutt’altro. Le vittime sacrificali vengono individuate proprio tra coloro che più di altri “mettono in croce” il prossimo. C’è più gusto. Proprio su questi si è sempre accanita la satira più crassa e feroce, senza tuttavia giungere al bullismo e allo stalking. La grande sfida, in cui i vigili sono sempre stati dei veri maestri, è quella di costruire su alcuni episodi vere saghe, anche a puntate, alcune delle quali entrate nella leggenda e che vanno mantenute in vita e narrate ai più giovani a perenne memoria. Racconti che meritano di essere diffusi ad un più vasto pubblico. Ci facciamo aiutare in questa epica impresa da qualche racconto, da vignette e piccole gag scritte, ricavate dalla memoria di qualche “vecchio” pompiere, da giornali e da piccole pubblicazioni. Invitiamo chiunque abbia provocato o vissuto uno scherzo o una storia divertente, ad inviarcene il racconto scritto, magari accompagnato da un'immagine e noi provvederemo volentieri a pubblicarlo. Buon divertimento. |
Il borotalco non borotalco
di Giulio Filippone (Comando di Torino) C’era un collega che si chiamava Alessandro C., detto “Plinio”. Plinio era furiere e si avvaleva volentieri del suo ruolo per rendere difficile la vita dei colleghi. Se gli si chiedeva di non essere inserito in un turno teatrale perché impossibilitato a farlo quel giorno, potevi stare tranquillo che proprio quel giorno ti sarebbe toccata una vigilanza in qualche teatro. Plinio aveva un acerrimo nemico: Alfredo B. che un giorno decise di saldare il conto e fargliela pagare per il suo modo di fare. Alfredo escogitò allora uno scherzo da mettere in atto con Nicola, altro suo nemico. Avevano fatto passare un tubicino nell’applique sul letto di Plinio che amava farsi la doccia e stendersi sulla branda per godere del fresco della doccia. A quel punto entrava in azione Nicola che lo accarezzava mandando Plinio in “brodo di giuggiole”, un piacere che si aggiungeva al piacere post-doccia e non si accorgeva che dal tubicino, collegato con una pompetta tipo clistere, Alfredo gli faceva cadere addosso una nuvola di borotalco. Il piacere di Plinio era massimo. Il problema però che invece del borotalco gli cadeva addosso della scagliola e dopo un po’ Plinio rimase duro e immobile sulla branda perché la scagliola si rapprese facendogli un calco addosso. Il berretto fuori misura di Giulio Filippone (Comando di Torino) Negli anni ’60 c’era un collega Matteo L. che noi chiamavamo “Puppa”. Era un uomo molto sensibile e facilmente impressionabile sui problemi della vita. Decidemmo così di fargli uno scherzo. All’epoca dei fatti il medico del Comando era il Professor Volterrani che si rese disponibile al gioco. All’epoca in caserma centrale c’era una cappelliera a disposizione di tutti, dove ognuno poteva lasciare il berretto e la giacca senza che nessuno toccasse niente. In Magazzino Generale esisteva una testa in legno munita di una vite che serviva per allargare i berretti e i cappelli che ci stavano un po’ stretti. Li si calzava umidi sulla sagoma e tramite la vite posteriore lo si allargava un po’ alla volta finché non cedeva. Questo era necessario perché all’epoca non c’erano le taglie per tutti e allora si prendeva la misura più prossima alla propria taglia e la si aggiustava così. Il giorno in cui decidemmo di iniziare lo scherzo il collega Luigi M. incontra Puppa e gli dice: «Ciao Puppa. Mah, non stai bene? «No sto bene, perché?» «Niente, mi sono sbagliato, scusami!» Mentre va per il cortile Puppa incontra altri colleghi che tutti gli fanno la stessa domanda. A quel punto Puppa comincia a preoccuparsi davvero di avere un aspetto poco sano. La storia andò avanti per un paio di mesi senza che sospettasse niente. Intanto i colleghi autori della burla giorno dopo giorno prendevano il suo berretto dalla cappelliera e senza farsene accorgere lo mettevano sotto la morsa della testa in legno allargandolo sempre un po’ di più. Puppa a quel punto davvero molto preoccupato e con il berretto sempre più largo calzato in testa, decise di andare dal dottor Volterrani che lo stava aspettando impaziente. «Professore, io non sto bene, mi sento davvero molto male.» «Venga pure Matteo. Stia tranquillo che la visito subito.» Il dottore mentre ancora lo stava visitando seriamente esclamò: «Ahia! Matteo, la cosa è seria, lei ha una brutta malattia.» Puppa quasi disperato chiese: «Dottore cos’ho! Che devo fare.» «Lei ha il morbo di “Kirstein”, bisogna fare molta attenzione.» «Professore e che cos’è, cosa mi succederà,» chiese Puppa preoccupato «Eh! Vede è un morbo che rimpicciolisce la testa, lo può vedere lei stesso dal cappello che le sta un po’ largo.» Uscendo in cortile incontra un collega complice che subito gli chiede per l’ennesima volta come stava. Puppa gli rispose che stava malissimo e che aveva il morbo di “Kirstein” che rimpicciolisce la testa. E mentre lo diceva il cappello gli scendeva fino a fermarsi alle orecchie. |
Gli scherzi du belin
di Maurizio Oliveri (già CR Comando di Genova) Ci sono tanti aneddoti sugli scherzi o sulle situazioni grottesche in cui i Vigili del Fuoco sono stati i protagonisti. Molti dettati dall'improvvisazione e altri da preparazioni meticolose e tecnicamente quasi perfette. Gli scherzi spesso non venivano fatti a caso, ma venivano indirizzati alle persone “giuste”, cioè quelle che se lo meritavano o quelle che avrebbero dato maggior divertimento e ilarità per i presenti. Ci trovavamo nella centrale operativa del Comando di Genova ed esattamente nella sala mensa dove un bancone divideva i tavoli e le sedie dalla cucina. “Talin” era il nostro capo squadra ed era responsabile dell'autorimessa. Era un capo “giusto”: serio e professionalmente capace nel suo operato, ma allegro e compagnone nei momenti di relax con tutti i colleghi, anche con gli ultimi arrivati. Aveva un difetto, se così vogliamo dire, ed era quello di essere estremamente goloso di dolci, ma nonostante questo era alto e molto magro. Era d'abitudine che la domenica venisse servito il dolce dopo il pranzo e così il vigile Picchio, chiamato cosi perchè parlava sempre, con il capo squadra Ron Ron (che ogni tanto si incantava nei suoi pensieri) andarono dietro il bancone del bar e raccolsero un bel po' dei fondi di caffè usato e cominciarono, umidificandolo un po', a fare delle palline simili a quei dolci fatti con cacao e crema di nocciole. Poi le fecero rotolare in piccole scaglie di cocco o di cioccolato fondente rendendole perfettamente uguali a quelle vere portate dalla pasticceria. Appena entrò Talin nella sala mensa scambiarono velocemente i due vassoi: quello delle vere palline di dolci e quelle fatte da loro con lo scarto di caffè. Goloso com'era disse, a voce alta, che se ne sarebbe mangiate due alla volta e così fece. Appena infilate in bocca rimase per un attimo con gli occhi spalancati e con la bocca piena. Sarebbe finito lì lo scherzo, tra i sorrisi di una parte dei colleghi che erano a conoscenza dello scambio, quando avvenne l'impensabile: in quel momento entrò nella sala un altro capo Squadra di nome Chiappe, anche lui notoriamente goloso e irascibile, che vedendo tutti quei dolci sul vassoi e Talin con la bocca piena gli chiese: “Talin, sono buone quelle palline...?” Qui ci fu un guizzo d'ingegno perché Talin fece roteare la mano aperta come per dire “tanto” e, dato che non poteva parlare a causa della bocca piena di fondi del caffè, gli fece il verso del “muggito” come di uno che apprezza tantissimo quello che mangia. Chiappe si avventò sul vassoio ingurgitandone anche lui un paio per paura che qualcuno gliele prendesse, rimanendo imbalsamato qualche secondo per poi sputare per terra tutto quello che aveva in bocca imprecando e lanciando minacce di vendetta per i responsabili se li avesse scoperti. Nella sala mensa ci fu chiaramente un boato di risate dei 35 presenti. Questo è un chiaro esempio di scherzo meticolosamente preparato e improvvisato sul momento. |
La fettina panata
di Tolomeo Litterio (già Direttore Centrale per la Prevenzione e Sicurezza Tecnica del CNVVF) Tutto il mondo apprezza la cotoletta alla milanese, denominata in vari modi a secondo delle nazioni e delle città. A Roma si dice “fettina panata”, ed è considerata ancor oggi una prelibatezza. Durante gli anni del dopoguerra, fino all’inizio del boom economico, la carne non era molto presente sulle tavole degli italiani, mentre arrivava almeno un turno sì e uno no nella mensa dei vigili del fuoco, perché necessaria per fornire il giusto quantitativo di proteine. Il maresciallo Geremia Capocorona, detto “Capo”, sia per il cognome che per il suo grado, era il capo officina del Comando dei vigili del fuoco di Roma. A pranzo Capocorona sedeva in testa al tavolo dell’officina, insieme a sei o sette suoi sottoposti, tra i quali Nando e Aristide, due giovani vigili meccanici che, in quanto tali, avevano posto in fondo. In pratica una disposizione di posti strettamente gerarchica. A Capocorona spettava la prima porzione delle pietanze che arrivavano fumanti su guantiere collettive. Quando era il turno della fettina panata, il Capo, ottima forchetta e molto goloso di questa specialità, si serviva di almeno tre fettine. Il vassoio passava poi di mano in mano prima ai brigadieri, poi ai vicebrigadieri, e infine ai vigili in ordine di anzianità. A Nando e Aristide arrivava spesso vuoto, e quindi si dovevano alzare per andare a chiedere in cucina un’alternativa, di solito un panino al prosciutto o al formaggio. Masticavano amaro, è proprio il caso di dirlo. Poi si tornava al lavoro con Capocorona in testa, aria soddisfatta e stecchino in bocca. − Guardalo! Anche oggi cia’ fregati, per lui semo du’ nullità – disse dopo l’ennesima volta Nando. E Aristide annuì. − La prossima ce penso io − concluse Nando. Uno dei giorni successivi, informatisi sul pranzo, salirono in cucina prima, portandosi dietro un foglio di cartone da imballo. Sul banco lo ritagliarono a forma di fettina di carne, grande, lo inumidirono per ammorbidirlo, e poi lo passarono ben bene nella farina e nell’uovo prima di impanarlo abbondantemente. Ne fecero anche un’altra, perché non si poteva mai sapere. Terminata la frittura nell’olio le estrassero perfettamente dorate come le altre originali, e poi posizionarono la più grande bene in vista sulla guantiera destinata al loro tavolo. Quando furono tutti seduti, un ausiliario, che il Capo trattava come se fosse al suo personale servizio, portò la guantiera. Capocorona si accaparrò subito la fetta più grossa, mandò avanti il vassoio come al solito. Finito di mangiare, mentre i due giovani vigili osservavano la scena cercando di non farsi notare, tutti, perfino il Capo, si profusero in lodi al cuoco. Allora l’ausiliario, un figlio di buona donna del Tufello, disse a Capocorona che gli sembrava che in cucina ne fosse avanzata ancora qualcuna. Il Capo annuì: −Daje che aspetti? Valle a pija’! Anche la seconda porzione fu divorata rapidamente. Poi tornarono tutti a lavorare. − Meno male che è n’ intenditore, n’ buongustaio − ridacchiava Nando, e Aristide lo imitava cercando di non farsi scoprire. Da allora, ogni volta che venivano servite le fettine panate, il maresciallo Capocorona prima di uscire dalla mensa diceva ai cuochi: − Bone eh! Ma come l’avete fatta quella vorta… E Nando e Aristide, che gli camminavano dietro, aggiungevano – Quanno ve và, ce date a’ ricetta − sforzandosi di non scoppiare a ridere. |
Il famigerato animale
Aldo e la sua squadra del turno D (Comando di Pistoia) Non ricordo l'anno (forse il 1985) ma verso l'una di notte un signore telefonò spaventatissimo al nostro centralino, chiedendo aiuto per la presenza nella propria casa di un animale non meglio identificato. Arrivati sul posto, scendemmo dalla Jeep e trovammo il sopraddetto richiedente che dal terrazzo del proprio palazzo, con gesti concitati, ci faceva segno di sbrigarci; arrivati nell'appartamento l'agitato e la moglie ci stavano aspettando vestiti in un modo alquanto bizzarro, non avendo nessuna parte del corpo scoperta e con in testa un asciugamano. Ci fecero accomodare in camera, dove si trovava il famigerato animale (identificato poi come “pipistrello”!); tutto era stato buttato sottosopra, anche il materasso era per terra... Appena entrati ci chiusero la porta alle nostre spalle, con la chiave e con il proprio corpo appoggiato; noi prendemmo il povero animale e lo facemmo volare via attraverso la finestra. Tornati nell'ingresso i proprietari vollero sapere se effettivamente l'animale se n'era andato. Dopo averli tranquillizzati varie volte si convinsero a togliersi gli asciugamani dalla testa dicendoci che i pipistrelli notoriamente si attaccavano ai capelli; ma, con nostra grande meraviglia, seguita da un attacco incontrollato di risate, il marito risultò essere completamente calvo! |
I timbri a caldo... forse troppo caldi
di Michele Sforza Tutto accadde all’incirca nell’agosto del 1976. Da pochi giorni ero a Torino in qualità di Vigile del Fuoco Permanente in prova. Frequentavo insieme ad altri centoventi giovani colleghi il corso di formazione. Scale, aula, funi, motopompe, automezzi, ginnastica, tanta ginnastica, matematica. Tutto questo riempiva le nostre giornate di giovani “burbe”, sballottati da un istruttore all’altro che, chissà perché urlavano ad ogni piè sospinto. Vabbè, non eravamo avvezzi a tutte quelle cose, però insomma ce la mettevamo tutta per fare bella figura e metterci in luce con i nostri superiori. Ed è proprio per questi un po’ meschini mezzi che mi trovai in un piccolo guaio. Accidenti ero appena arrivato e già combinavo una delle mie solite cavolate. Comunque per farla breve, come ho detto per catturare la benevolenza dei capi sezione e dei responsabili, spesso, noi allievi, ci offrivamo volontari per svolgere dei lavori extra corso, nel pomeriggio dopo l’ennesima salita alla scala “all’italiana” o l’immancabile salto nel telo fatto subito dopo pranzo - chissà perché non ce lo facevano fare nella sessione mattutina - dove immancabilmente la pastasciutta ci ritornava in gola con l’impatto sul telo tondo. Questa disponibilità, non certo disinteressata, veniva offerta soprattutto da noi residenti all’”estero”, per ottenere qualche permesso extra per andare una volta in più a casa. In una di questi meschini “scambi di merce”, il Capo Sezione di quel giorno un tal Luigi L., chiese a me e al mio collega e amico Antonio De Michele, di marchiare con i timbri a caldo, alcune scale all’italiana, nuove di pacca. Ricevuta la delicata e importante missione, un Ufficiale – all’epoca ancora si faceva fatica a chiamarli Funzionari – ovvero il geometra Nello P., uno spilungone fiorentino che tanto terrore ci incuteva con i suoi modi di fare, volle aggiungere del suo raccomandandoci di fare attenzione e di svolgere bene la delicata incombenza. - Geometra stia tranquillo, sappiamo il fatto nostro. Il lavoro verrà fatto a regola d’arte, poi si ricordi di firmarci quel permessino per il fine settimana, dissi per tranquillizzarlo. - O ragazzino, o ...he tu vuoi! Va a fare il tu lavoro. Un me fà arrabbià, mi rispose quasi abbaiando in una strana lingua che quasi non conteneva le “c”, tanto da non capirci un ...azzo! Comunque presi dallo zelo del momento e sicuri di fare un ottimo lavoro e di guadagnare così la nostra meritata ricompensa, ritirammo dal Magazzino Generale - forse ce li diede Riccardo Buono, un omino simpatico e molto comprensivo, che era il magazziniere di turno - il necessario, ovvero la forgia, la carbonella, ma soprattutto il pacco dei timbri a caldo, in metallo, da scaldare con il fuoco della forgia. Ogni timbro riportava un numero ed era fissato ad uno lungo stelo di ferro terminante con un manico di legno per non bruciarsi. Buono nella sua magnanimità - forse aveva subodorato che eravamo un po’ imbranati - ci fece l’ultima raccomandazione: «ragazzi mi raccomando, fate attenzione perché questi timbri sono nuovi e nessuno li ha ancora adoperati. Costano molti soldi e se li rovinate vi spediscono nel Comando più distante da qui.» «Tranquillo capo, sappiamo il fatto nostro e in poco tempo faremo il lavoro e le riconsegniamo il materiale,» in coro dicemmo io e Antonio. Chissà se fummo convincenti nel tranquillizzarlo sulle nostre indubbie capacità manuali, perché uno sguardo di velata preoccupazione e di scetticismo si stampò sul suo viso; almeno così ci parve. Così pieni di buona volontà ci mettemmo all’opera di buona lena. Forgia, carbone, fiammiferi, timbri, scale. Tutto a posto e via con il fuoco. Un bel po’ di giri del soffiatore manuale e il fuoco raggiunse in breve una temperatura di almeno 5000° (forse qualcosa in meno). Fieri del lavoro fatto, battendoci il cinque e con l’ego a quota 1000, “inzuppammo” i timbri nella carbonella infiammata, con le faville che schizzavano via impazzite e che arrivavano al secondo piano. Sembrava un girone dell’inferno di Dante. Stimammo in circa mezz’ora il tempo di riscaldamento a puntino dei timbri e così per ingannare l’attesa, andammo a cazzeggiare con qualcuno dei nostri colleghi corsisti in qualche angolo del cortile. Certi che ormai i timbri fossero ben roventi, tornammo al nostro “campo di battaglia” e con grande sorpresa trovammo in vita solo dei moncherini di manici, quella parte più distante dalle fiamme. Tutto il resto era fuso. Sotto la forgia si era formata una placca di metallo ormai rappreso e che faceva tutt’uno con il pavè del cortile. Che casino che avevamo combinato! Dovevamo escogitare un piano per non pagare dazio. Dovevamo costruirci un alibi, così assolutamente sopraffatti dall’angoscia e mantenendo una buona dose di sangue freddo, confidando nella poca memoria del nostro Funzionario Nello P., del Capo Turno L. e del Magazziniere Buono, semplicemente ce la squagliammo e ci confondemmo con gli altri colleghi impegnati in altri lavori, facendo finta di non esserci mai mossi da quella posizione. Il caos che si creò quando il geometra P. scoprì il misfatto fu indicibile. P. litigò con il capo sezione L. il quale accusò Buono di aver consegnato il materiale senza farsi firmare una ricevuta. Buono si difendeva che era compito di Lombardi segnarsi i nomi di chi gli mandava e Palandri che cazziava entrambi. L., stile del Sergente maggiore Hartman in Full Metal Jacket, con lo sguardo torvo e minaccioso passò in rassegna il personale radunato in cortile, cercando, forse su ognuno di noi, qualche traccia che rendesse evidente la responsabilità. Ma niente. Dei colpevoli non si trovava traccia. Con il berretto calzato con la visiera al contrario, L. riferì a P. l’esito negativo dell’accurata indagine. La confusione era il segno che il nostro piano era riuscito a meraviglia; Io e Antonio intanto ci davamo di gomito rinfrancati dal fatto che nessuno ricordava nomi e volti dei due malfattori; intanto le scale erano ancora tutte lì, in attesa della marchiatura, con il povero Buono che si aggirava sconsolato sul luogo del crimine e a tratti osservava incredulo il fuoco che divorava anche i manici di legno. |
La sostenibile leggerezza nelle ore di servizio
di Maurizio Fochi Non esiste un incontro tra vecchi amici/colleghi Vigili del Fuoco che non preveda la rievocazione di tutto l’armamentario di aneddoti e storielle spassose e semiserie che arricchiscono anni di fraterna convivenza all’interno delle nostre sedi. Le tante ore passate insieme sono da sempre state allietate da ogni genere di scherzo, talvolta ai danni dei nuovi arrivati o cinicamente più volte perpetrati nei confronti dei meno disincantati. Quei ricordi suscitano ancora il massimo dell’ilarità soprattutto per chi ne è stato più o meno protagonista. Gli ambiti in cui si svolgevano queste burle erano i più diversi: le più praticate, durante l’estate, erano senza alcun dubbio, quelle acquatiche. Veri e propri specialisti, che dalla loro elevata postazione strategica sapevano colpire le vittime con straripanti secchiate d’acqua. Alcuni tra i più esperti, sapevano centrare i malcapitati nella più assoluta anonimia, andandoli ad incrociare pochi secondi dopo nel cortile, mostrando con una enorme “faccia di tolla” tutto il loro stupore. L’uso del palo da discesa, a quei tempi, era uno strumento della più assoluta utilità. Lo scherzo d’acqua era sicuramente il più “gettonato”, perpetrato in ogni sua più disparata forma in qualsiasi occasione potesse presentarsi. Le “incazzature” erano garantite, così come le promesse di “sfida all’Ok Corral” che prolungavano nel tempo queste “perturbazioni temporalesche”. Un altro scherzo che veniva spesso compiuto ai danni dei nuovi Vigili Ausiliari, quando questi erano posti di corvè in cucina, era quello di far porre al giovane inesperto i rimasugli delle verdure nelle gabbie dei conigli, su al quinto piano del castello di manovra. Questo viaggetto su per le rampe di cinque scale era una sorta di iniziazione per il nuovo ausiliare, che tornato in cortile si trovava sbeffeggiato da tutti i presenti. Altrettanto memorabili rimangono tuttora i tanti tornei di pallavolo, giocati tra permanenti e VVA, con ogni genere di scherno rivolto ai perdenti ( il più delle volte VV.A.). A Mantova uno dei personaggi presi più di mira era il barbiere, una persona piuttosto anziana, che avendo stipulato un contratto a cottimo veniva a raccogliere le firme dagli ausiliari per dimostrare d’aver tagliato loro i capelli, così come previsto per chi stava svolgendo il servizio militare. Al povero Severino venivano fatti i più disparati e sadici scherzi: spalmato abbondantemente di grasso le manopole del manubrio della bicicletta, oppure legata la bici alla finestra dei piani superiori del castello di manovra. Una volta un vigile, calzata una vecchia muta nera da sub, ove erano state disegnate le ossa a mo’ di scheletro, in più indossando la maschera col teschio, aspettò nella penombra l’arrivo del povero barbiere, che per poco non morì dallo spavento. All’illustre burlone andò meno bene quell’altra volta che, alle prese con un Capo Reparto sorpreso dalla comparsata, gli sferrò un forte sganassone. Si dice, che per un po’ smise di fare scherzi. Clamorosa lo burla che si fece ad un collega telefonista. Era uno che difficilmente riconosceva i diversi timbri di voce, per cui era estremamente facile spacciarsi per un qualsiasi richiedente soccorso. Allora le chiamate al 115 non venivano registrate, inoltre, non essendoci ancora cellulari, veniva utilizzata per l’ordinario traffico telefonico la cabina SIP posta all’interno della sala ricreativa della caserma. Quella sera simulammo una chiamata di soccorso da parte di un fantomatico cittadino che, tornando sulla strada dal lago di Garda, aveva visto gonfiarsi il gommone all’interno della propria vettura. Il fatto era talmente paradossale che pensavamo potesse essere subito scoperto; invece, con non poco nostro stupore, il centralinista (che non era solito assumersi personali responsabilità) chiamò il capo turno che stava già nella sua stanzetta. Andammo subito ad origliare dietro la porta e con altrettanta sorpresa sentimmo dire: “digli che lo buchi”. A quel punto, sapendo già quale sarebbe stata la risposta, avevamo già confezionato una preoccupata replica: “ho paura, dopo scoppia!!!” Nuova chiamata al Capo Turno, che a quel punto dispose l’uscita della partenza. Il Capo Squadra chiamato ad intervenire (era lo stesso che stava al telefono nella cabina per fare la richiesta di soccorso) si rifiutò di intervenire suscitando la grande ira del centralinista, che però era ben lungi dall’aver capito “di essere stato messo in mezzo”. Noi tutti ci stavamo sbellicando dalle risate. Alla mattina, quando suonò una nuova chiamata di soccorso, il centralinista si rivolse allo stes- so capo squadra dicendogli: “… e adesso vuoi andare fuori?” In aggiunta, vorrei rivolgere un caro ricordo al Capo Reparto Gianfranco Novanta (Mantova 1932-2020), riportando una sua testimonianza raccolta durante le riprese del documentario “I Ricordi e la Memoria”, rea- lizzato nel 2016. In quel filmato raccontava, in modo divertito e divertente, il trascorrere dei giorni all’interno della vecchia caserma di via Grioli a Mantova durante gli anni Cinquanta. Era uno spasso, anche, perché io e Boni di scherzi ne abbiamo fatti tanti. Insomma, noi eravamo più giovani e ci piaceva scherzare con quelle persone anziane che ormai non aspettavano altro che la pensione, qualcuno di loro tendeva un po’ a bere, in più senza segnare. A fine turno dovevamo annotare sulla lavagna la quota del vino consumato, ne mancava sempre parecchio; perciò, per pareggiare i livelli scomparsi noi aggiungevamo acqua. Una sera, c’era un brigadiere di Verona che si era addormentato in sala mensa . Boni mi fa: “ Guardalo là …Sai come facciamo per svegliarlo?”, “Come facciamo? ” gli rispondo. Allora c’erano tutte sedie di legno, ne abbiamo fatto una pila davanti la porta, poi abbiamo fatto suonare l’allarme. Immaginatevi cosa è successo!!! Scattato il segnale, con l’accensione delle luci dentro la sala, il brigadiere nel sobbalzare di scatto correva alla porta senza accorgendosi della catasta andando a sbattere rovinosamente contro le sedie. Noi ci eravamo nascosti per vedere quella scena così divertente, stando attenti che non ci scoprissero. Questi, di tanti racconti, rimangono un simpatico ricordo che ancora oggi ci fa divertire. Una moltitudine di episodi che nei tanti anni, col passaggio di testimone tra le diverse generazioni, ci trovano accomunati in quello spirito guascone, volto a rallegrare quei lun- ghi turni di servizio trascorsi insieme; prima di 24 ore e poi con l’orario attuale, pur senza gli odierni salti compensativi. Uno dei tanti coloriti modi per passare, con sostenibile leggerezza, quelle tante ore di servizio. |