27 gennaio 1880
L'eroismo del Cap. Giuseppe Rubino
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Gli episodi compiuti dai pompieri del tempo, che oggi definiremmo eroici ricorrendo ad una buona enfasi, furono diversi, ma quel senso di sgomento popolare seguito all’incendio e divenuto col passare dei giorni piena ammirazione per la brillante azione dei pompieri, quei sentimenti vennero raccolti e mirabilmente raccontati da Edmondo De Amicis nel suo libro “Cuore”.
De Amicis ne fece un vero capolavoro narrativo, come del resto l’intero libro, che formò generazioni di giovinette e giovinetti. Nella narrazione de “L’incendio”, troviamo Alberto il padre di Enrico che in un’occasione fortuita riesce a presentare il figlio ad un pompiere, il Caporale Robino appunto, che si trovò a passare nel loro alloggio per un intervento. All’epoca dei fatti la caserma dei pompieri si trovava ancora in alcuni spazi del Palazzo Comunale e la strada da percorrere per giungere in Via Roma non fu molta, tuttavia lunga e faticosa se percorsa a piedi trascinandosi di corsa un carro con sopra una pesante pompa a mano e una greve scala di legno. Erano le tre della notte del 27 gennaio 1880. A Torino i gradi sotto lo zero erano davvero tanti, anche se niente in confronto al mese precedente, il dicembre 1879, che verrà ricordato come uno dei più freddi, ma il piccolo convoglio dovette affrontare l’insidia del pavé e del basolato su cui giaceva una spessa patina di ghiaccio. Il piccolo convoglio uscì dal “Cortile del burro”, dove aveva sede l’arsenale dei pompieri, e si immise nella via Corte d’Appello 1, percorse la via Palazzo di Citta per affacciarsi nella nobile Piazza Castello. Da qui arrivare al civico 3 di via Roma era questione di trenta secondi. La cronaca giornalistica dell’incidente, dalle colonne del quotidiano “Gazzetta Piemontese”, diventata poi “La Stampa”, nell’edizione mattutina del 27 gennaio, lo stesso giorno dell’incendio. Uno dei cronisti del quotidiano, in un articolo non firmato ci narra che: «Quando stanotte via Roma era più tranquilla e la luna più fulgida splendeva sui bianchi tetti addormiti, chi l’avrebbe mai più detto che d’un tratto quella via si risveglierebbe nel più grande spavento o che sotto ad uno di quei tetti si affaccerebbe ad un tratto una terribile catastrofe… Raccontiamo la cosa per filo e per segno come l’ha raccolta or ora il nostro reporter. Erano di poco lontane le 3 dopo la mezzanotte e in casa dei coniugi Cantini, abitanti l’ultimo piano dell’ala dell’Istituto delle figlie dei militari prospiciente via Roma, regnava il sonno ed il silenzio. Ad un tratto la signora Francesca si sveglia a delle grida di spavento che uscivano dalla stanza di sua figlia Bianca. – Mamma, c’è il fuoco, sento il fuoco!... La madre accorse come si può capire; la figlia era balzata da letto e additava spaurita l’uscio di casa, dietro il quale si sentiva crepitare delle fiamme. L’uscio di casa dà, o per meglio dire dava, su un corridoio, ed il fuoco si è precisamente sviluppato di là. Come? Questo è mistero ancora; si suppone per altro che sia stato originato da un camino in casa del sarto G. P. costrutto non abbastanza lontano dalle travi. Ma intanto ecco che aprendo la porta di casa un terribile spettacolo si affaccia alle due donne. Il corridoio e le soffitte laterali ad essa ertano tutte una fiamma. Immaginare che urli!... Balzarono di letto anche i signori Cantini padre e figlio; il promo atto istintivo di tutti fu quello di precipitare alla porta e fuggire... Ma ahimè! Era precisamente dalla porta che infuriava l’incendio. Le travi della casa, vecchie e tarlate crepitavano rovinando; quel corridoio pareva di cartone in quel momento, tanto si andava sfacendo man mano… le fiamme a guizzi, a spire uscivan dappertutto. Tuttavia il figlio Cantini si slanciò nell’incendio, lo passò e incolume poté sfuggire arrivando le scale. Ma gli altri non poterono imitarlo. Non si ha tutti lo stesso ardire, né si ha tutti vent’anni. Gli altri acciecati di fumo, di spavento, si ridussero nell’ultima stanza dell’appartamento. A che fare? Con che speranza? In quel momento né lo chiedevano, né lo sapevano… Urlavano dissennati: “aiuto! aiuto!” e intanto aspettavano… Ma il fuoco, terribilmente alimentato, invadeva, invadeva. Da un corridoio era passato alla prima stanza, quindi alla seconda, oramai l’ultima era anch’essa tocca; le mura arrossate si piegavano, nel soffitto apparivano i primi guizzi. In che stato fosse la famiglia Contini si può più immaginare che descrivere. Palmo a palmo si era ridotti all’ultimo suo scampo: una finestra che da in via Roma; forsennata la figlia Bianca ne era balzata fuori, aggrappandosi alle inferriate; piuttosto che morire incendiata, voleva precipitarsi nella via: padre e madre ne l’avevano afferrata a loro volta per la camicia… tutti aspettavano così la morte. No, non fu la morte quella che venne, ma la salvezza! I disgraziati sentirono un rumore sul tetto, sopra il loro capo. Quello era rumore diverso dal crepitio dell’incendio; era l’urto di picche, erano voci di coraggio. Come in una visione, ad un tratto il tetto si squarciò e ne precipitarono giù tre coraggiosi… “Tre pompieri li veggo ora… - udimmo passato l’incendio, a dire la signora Cantini – ma in quel momento ci son parsi tre angioli”. E lasciamo, già che la citammo, proseguire la narratrice. “Quel che hanno saputo fare in quel momento i generosi pompieri non potrò esprimerlo mai più: in mezzo alle fiamme si precipitarono verso di noi; intanto, come tutta in una visione, vedemmo che dalla strada si era alzata verso di noi una scala aerea; la finestra era allora una folla enorme: i tre pompieri afferrarono successivamente la giovine Bianca, quindi mio marito e me; fummo portati giù dalla scala… eravamo salvi! …” Quello che possiamo aggiungere noi e che constatammo che si fu l’ardito rischio che dovettero affrontare i pompieri per giungere a quel lembo di tetto, di notte, coi tetti agghiacolati, girando per embrici e sponde delle più malfide… Essi furono il caporale Giuseppe Robini e le guardie Valle e Gay. Onore ai coraggiosi! È inutile per altro dire che essi furono non meno degnamente assecondati da altri compagni. Come si vede il pericolo maggiore in quella casa lo corsero gli inquilini dell’ultimo piano; ma non ebbero minore spavento quelli dei sottostanti. Qui lo spazio ci incalza e non possiamo soffermarvici; ma una visita che il nostro lettore vada a fare alla casa incendiata basta a dargliene un’idea. Fortunati però tutti quegli inquilini svegliati a tempo: poterono fuggire. Gli ultimi due piani della casa sono completamente disfatti; l’ultimo distrutto, gli altri più o meno gravemente danneggiati. Inutile dire poi che le masserizie dell’ultimo furono completamente preda alle fiamme; negli altri c’è più ben poco di buono da salvare. I danni complessivamente non si possono ancora calcolare: l’edifizio per altro era assicurato; non così le masserizie di alcuni inquilini, compresi i coniugi Cantini. È stato un vero fulmine per loro! Appena sparsa la voce dell’incendio, accorsero in via Roma parecchie autorità civili e militari, truppe, guardie di P.S., di città, ecc. Han fatto tutti nel miglior modo il loro dovere e ci fu da fare per tutti. Come si è detto la casa è un braccio dell’Istituto delle Figlie dei militari, del quale è proprietà. Diciamo ora, per tranquillare tante giuste ansie, che il locale occupato dalle educande di detto Istituto, non fu menomamente offeso: I bravi pompieri riuscirono ad isolarlo completamente dalla parte incendiata. Cosicché le educande non corsero alcun pericolo. Diremo di più: siccome i dormitori sono un po’ lontani dalla via Roma, il loro muro non fu neanche rotto ne seppero dell’incendio che stamattina a far colazione. La quale (fra parentesi) attesta il reporter, non fu fatta per questo con minor appetito.» Veniamo al racconto dell’incendio che ne fa De Amicis. «Questa mattina io avevo finito di copiare la mia parte del racconto Dagli Appennini alle Ande, e stavo cercando un tema per la composizione libera che ci diede da fare il maestro, quando udii un vocio insolito per le scale, e poco dopo entrarono in casa due pompieri, i quali domandarono a mio padre il permesso di visitare le stufe e i camini, perché bruciava un fumaiolo sui tetti e non si capiva di chi fosse. Mio padre disse: - Facciano pure, - e benché non avessimo fuoco acceso da nessuna parte, essi cominciarono a girar per le stanze e a metter l’orecchio alle pareti, per sentir se rumoreggiasse il foco dentro alle gole che vanno su agli altri piani della casa. E mio padre mi disse, mentre giravan per le stanze: - Enrico, ecco un tema per la tua composizione: i pompieri. Provati un po’ a scrivere quello che ti racconto. Io li vidi all’opera due anni fa, una sera che uscivo dal teatro Balbo, a notte avanzata. Entrando in via Roma, vidi una luce insolita, e un’onda di gente che accorreva; una casa era in fuoco: lingue di fiamma e nuvoli di fumo rompevan dalle finestre e dal tetto; uomini e donne apparivano ai davanzali e sparivano gettando grida disperate; c’era gran tumulto davanti al portone; la folla gridava: «Brucian vivi! Soccorso! I Pompieri!» Arrivò in quel punto una carrozza, ne saltaron fuori quattro pompieri, i primi che s’eran trovati al Municipio, e si slanciarono dentro alla casa. Erano appena entrati, che si vide una cosa orrenda; una donna s'affacciò urlando a una finestra del terzo piano, s’afferrò alla ringhiera, la scavalcò, e rimase afferrata così, quasi sospesa nel vuoto, con la schiena in fuori, curva sotto il fumo e le fiamme che fuggendo dalla stanza le lambivano quasi la testa. La folla gettò un grido di raccapriccio. I pompieri, arrestati per isbaglio al secondo piano dagli inquilini atterriti, avevan già sfondato un muro e s’eran precipitati in una camera; quando cento grida l’avvertirono: «Al terzo piano! Al terzo piano!» Volarono al terzo piano. Qui era un rovinio d’inferno: travi di tetto che crollavano, corridoi pieni di fiamme, un fumo che soffocava. Per arrivare alle stanze dov’eran gli inquilini rinchiusi non restava altra via che passar pel tetto. Si lanciarono subito su, e un minuto dopo si vide come un fantasma nero saltar sui coppi, tra il fumo. Era il caporale arrivato per primo. Ma per andare dalla parte del tetto che corrispondeva al quartierino chiuso dal fuoco, gli bisognava passare sopra un ristrettissimo spazio compreso tra un abbaino e la grondaia; tutto il resto fiammeggiava, e quel piccolo tratto era coperto di neve e di ghiaccio, e non c'era dove aggrapparsi. «È impossibile che passi!» Gridava la folla di sotto. Il caporale s’avanzò sull’orlo del tetto: - tutti rabbrividirono, e stettero a guardar col respiro sospeso: - passò – un immenso evviva salì al cielo. Il caporale riprese la corsa, e arrivato al punto minacciato, cominciò a spezzare furiosamente a colpi d’accetta coppi, travi, correntini, per aprirsi una buca da scender dentro. Intanto la donna era sempre sospesa fuor della finestra, il fuoco le infuriava sul capo, un minuto ancora, e sarebbe precipitata nella via. La buca fu aperta, si vide il caporale levarsi la tracolla e calarsi giù; gli altri pompieri, sopraggiunti lo seguirono. Nello stesso momento un’altissima scala Porta, arrivata allora, s’appoggiò al cornicione della casa, da cui uscivano fiamme e urli da pazzi. Ma si credeva che fosse tardi. «Nessuno si salva più», gridavano. «I pompieri bruciano». «È finita». «Son morti». All’improvviso si vide apparire alla finestra della ringhiera la figura nera del caporale, illuminata di sopra in giù dalle fiamme; - la donna gli s’avvinghiò al collo: - egli l’afferrò alla vita con tutt’e due le braccia, la tirò su, la depose dentro alla stanza. La folla mise un grido di mille voci, che coprì il fracasso dell’incendio. Ma e gli altri? E discendere? La scala, appoggiata al tetto davanti a un’altra finestra, distava dal davanzale un buon tratto. Come avrebbe potuto attaccarvisi? Mentre questo si diceva, uno dei pompieri si fece fuori della finestra, mise il piede destro sul davanzale e il sinistro sulla scala, e così ritto per aria, abbracciati ad uno ad uno gli inquilini, che gli altri gli porgevan di dentro, li porse a un compagno, ch’era salito su dalla via, e che, attaccatili bene ai pioli, li fece scendere, l’un dopo l’altro, aiutati da altri pompieri di sotto. Passò prima la donna della ringhiera, poi una bimba, un’altra donna, un vecchio. Tutti eran salvi. Dopo il vecchio scesero i pompieri rimasti dentro; ultimo a scendere fu il caporale, che era stato il primo ad accorrere. La folla li accolse tutti con uno scoppio d’applausi; ma quando comparve l’ultimo, l’avanguardia dei salvatori, quello che aveva affrontato innanzi agli altri l'abbisso, quello che sarebbe morto, se uno avesse dovuto morire, la folla lo salutò come un trionfatore, gridando e stendendo le braccia con uno slancio affettuoso d’ammirazione e di gratitudine, e in pochi momenti il suo nome oscuro - Giuseppe Robbino - suonò su mille bocche ... Hai capito? Quello è coraggio del cuore, che non ragiona, che non vacilla, che va diritto fulmineo dove sente il grido di chi muore. Io ti condurrò un giorno agli esercizi dei pompieri, e ti farò vedere il caporale Robbino; perché saresti molto contento di conoscerlo, non è vero? Risposi di sì. - Eccolo qua, - disse mio padre. Io mi voltai di scatto. I due pompieri, terminata la visita, attraversavan la stanza per uscire. Mio padre m’accennò il più piccolo, che aveva i galloni, e mi disse: - Stringi la mano al caporale Robbino. Il caporale si fermò e mi porse la mano, sorridendo: io gliela strinsi; egli mi fece un saluto ed uscì. - E ricordatene bene, - disse mio padre – perché delle migliaia delle mani che stringerai nella vita, non ce ne saranno forse dieci che valgan la sua.» Quattro giorni dopo, il 31 gennaio, nella seduta del Consiglio Comunale il Sindaco di Torino, l’On. Luigi Ferraris, ebbe le seguenti parole per l’azione dei pompieri: «Profitto dell’occasione per tributare un encomio alle generose guardie del fuoco che nell’incendio testé verificatori in via Roma, affrontando il pericolo più grave e con un coraggio esemplare operarono il salvamento di parecchie persone. La Giunta ha già loro stanziato una gratificazione a titolo d’onore, ma ora li propone alla lode del Consiglio. (Benissimo!). E quando si parla delle guardie, non si può dimenticare il loro capo, Capitano Corsi, il quale quando è innanzi al pericolo, da ad ogni volta quelle prove di coraggio che oramai gli sono abituali. (Applausi!)» Il 27 maggio del 1880 il re Umberto I su proposta del Ministro dell’Interno Agostino Depretis decorò il caporale Giuseppe Robino, il sotto-caporale Giuseppe Piantanida e la guardia a fuoco Bonifacio Casotti della Medaglia d’Argento al Valor Civile, con l’aggiunta di 100 lire di premio economico. Nel 1994 ebbi l’onore di conoscere le nipoti del caporale Robino e di stringere tra le mani la medaglia d’argento e sfogliare la copia del libro “Cuore” che De Amicis regalò a Robino, ed ebbi anche la possibilità di leggere la dedica che lo scrittore fece al caporale. |