1904 - L'incendio della Biblioteca Nazionale di Torino
di Michele Sforza
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Era notte, all’incirca l’1 e trenta del 26 gennaio 1904.
Una notte invernale e fredda come può essere una notte torinese del primo mese dell’anno. Le condizioni atmosferiche piuttosto rigide affinché poche persone fossero per strada a quell’ora c’erano tutte. Una notte dove tutto e niente poteva accadere. Prevalse la prima condizione, purtroppo. E così, poco dopo l’1 di notte, il fuoco, forse causato da un corto circuito, cominciò a bruciare parte del secondo e del terzo piano del grande edificio che in via Po ospitava l’Università e la Biblioteca Nazionale. Un passante, forse l’unico che ancora si trovava in giro a quell’ora, notò quegli strani bagliori che illuminavano le finestre dei due piani, la parte dell’edificio occupata dalla biblioteca. Il fuoco cresceva di istante in istante. Il crepitio dei vetri che cominciavano a cedere per il forte calore si faceva sempre più forte, mentre il fuoco, fuoriuscendo dalle finestre e lambendo il muro, cominciava a coinvolgere dall’esterno l’ultimo piano. La colonna di fumo che si alzava sopra l’edificio si ingrossava sempre di più; sempre più densa e sempre più alta. Lo sgomento del passante saliva istante su istante. Le sue urla nella notte non sortirono subito un grande effetto. Quasi si fermò, affranto, bloccato e impotente di fronte ad uno spettacolo terribile, ma allo stesso tempo affascinante. Si precipitò a svegliare il custode del palazzo, ma non ebbe fortuna; nessuno gli rispose. In lontananza una guardia notturna impegnata nella sua ronda di controllo, fortunatamente senti quelle urla e si precipitò con la sua bicicletta d’ordinanza, laddove aveva ritenuto provenissero quelle grida angosciate che mettevano addosso dei brividi. Sicuramente pensò ad un delitto in atto, forse una rapina, magari una lite tra ubriachi. Una questione da poco che avrebbe risolto in fretta e avrebbe ripreso il suo giro senza andare incontro a tanti problemi. Ma non fu nulla di tutto quello che aveva supposto. Mai avrebbe immaginato di trovarsi di fronte ad un incendio. Uno spettacolo violento, forte che un po’ alla volta avanzava e divorava la biblioteca e parte del suo immenso patrimonio di libri preziosi. Superato il primo sbigottimento e recuperato il suo sangue freddo professionale, la guardia, come si suol dire, prese in mano la situazione e cominciò ad organizzare le persone che stavano arrivando in via Po, attratte dalle urla e dalla puzza di bruciato che oltre ad elevarsi al cielo, iniziava ad invadere i lunghi portici della via. Mandò alcuni a bussare alla porta del guardiano e altri ad allertare i pompieri della Stazione “Borgo Nuovo” in via San Francesco da Paola, poco distante dalla biblioteca. Altri andarono al Municipio per lanciare l’allarme alle strutture pubbliche e ai pompieri della Sezione principale, quella delle “Fontane di Santa Barbara” in corso Regina Margherita 126. Il fuoco, trovando facile esca nell’enorme quantità di libri accumulati nelle sale aveva “preso” anche il tetto e il custode, nonostante le robuste manate sulla sua porta, non si svegliava. In strada la folla si ingrossava sempre di più. Curiosi, ma soprattutto gli inquilini delle soffitte dell’edificio che, terrorizzati dal fuoco, cominciarono a fuggire in strada in cerca di scampo. «Vista di lontano, a chi veniva trafelato da piazza Castello, codesta lingua di fuoco che profilava la linea esterna del bel palazzo e tutte le sporgenze e il disegno delle finestre, appariva come un gioioso effetto di illuminazione festiva. Ma il fumo avvampante, che si levava dal tetto, annunziava di lontano che quella era luce di sciagura. La folla, ben comprendendo quale danno grande, irreparabile era in quel rogo, ed il pericolo che correvano i tesori dei manoscritti e delle collezioni a pochi passi dal braciere, seguiva ansiosa le vicende dell’incendio, e guardava perplessa, silenziosa.» All’1 e 40 circa quasi contemporaneamente arrivarono i primi diciassette pompieri dalla Stazione di via San Francesco da Paola e quelli della sezione centrale, con quattro pompe a mano, al comando del Sergente Pietro Passera. Passera inviò immediatamente una parte dei pompieri sul tetto per effettuare un primo taglio, nel tentativo di fermare l’avanzata del fuoco, mentre altri pompieri tentarono di penetrare nell’edificio che ancora risultava impenetrabile, poiché tutti gli accessi erano ancora sbarrati. «I primi pompieri accorsi si adoperarono immediatamente a domare l’incendio verso l’angolo di via Vasco. I tubi delle pompe, che rigavano la strada come grosse gomene, come vene colossali, vennero introdotte per la porta secondaria della biblioteca e fatti passare per la tortuosa scala di servizio ed issate fino al tetto, dove pure si erano arrampicati i pompieri. In un attimo lunghi getti d’acqua vennero diretti contro le fiamme, e torrenti d’acqua ricadevano sui gradini, allagavano i portici. Una scala aerea, giunta sul luogo con grande fragore di ruote, venne alzata anche da via Po, ed anche da questo lato i pompieri si posero all’opera a circoscrivere l’incendio. Ma il fuoco si estendeva, si estendeva sempre, e cacciato da una finestra tosto si affacciava ad un’altra. La facciata, per oltre trenta metri di lunghezza, appariva in fiamme. I soffitti, le travi dei tetti ardevano come sarmenti. Alle finestre, dove non era più traccia di vetri o di imposto, le faville si avventavano in pioggia. Gli abbaini per un momento sparivano ravvolti in una nuvola di fumo rovente, poi riapparivano crepitanti sotto vampe chiarissime e si sgretolavano, sembravano svaporare in luce. Giudicare dal basso quale era l’opera dei pompieri lassù, era impossibile. Si vedevano solo, a tratti, correre sulle gronde del tetto delle ombre nere affrettate, si udivano dei colpi di accetta demolitrice, delle voci di richiami, d’appelli, di ordini e i sibili dei getti d’acqua nelle vampe. |…| Il fragore dei colpi sul metallo risuona nel gran silenzio di questo incendio non simile a nessun altro. Presso il gruppo marmoreo, che appena illumina una candela, si son raccolte tutte le Autorità, nella speranza di veder aperto il varco che potrebbe concedere ancora di salvare dalla furia del fuoco i preziosi Codici dell’abbazia di Bobbio e tutti i manoscritti che provenivano dall’antica libreria di Casa Savoia. Ma il metallo non cede: sotto l’incalzare dei colpi dà un suono sinistro di tam-tam, senza piegare. Ad uno succedon altri percuotitori, alle ascie si sostituiscono le mazze, ma lo sportello blindato non cede e inesorabilmente col ritardo diminuisce la possibilità di salvezza. Ora presso codesto sciagurato sportello d’acciaio, verso cui si tende l’ansia di tanti, è accorso, febbrile, sussultante, il prefetto della Biblioteca, il cav. Casta, il signore e l’amoroso accrescitore della ricchissima raccolta. Innanzi sperava ancora di veder andare salvi i suoi tesori e s’immaginava di procedere per le vie burocratiche: persino ha voluto chiedere al Ministero il telegrafico permesso di rimuovere i preziosi manoscritti che il fuoco, infischiandosi di tutti i ministri, già ormai deve aver raggiunto. Ora incita i colpi che si rivolgono contro il muro, che attorno all’inflessibile sportello, sopra un marmoreo busto, si sbriciola poco a poco. |…| Il momento è grave. Là non bruciano, come dove è più vasto il rogo, mattoni e libri: ma sono le solitarie voci degli antichi trasmesse sino a noi sulla rara ed unica forma di scritture miniate, sono le testimonianze senza conferma del pensiero di secoli passati, che le fiamme lambono e distruggono. E quel che il fuoco risparmia, l’acqua distruggerà irreparabilmente! Il pensiero della rovina ineluttabile passa contemporaneamente rapido, angoscioso per la mente di tutti; la lancia di un tubo che l’acqua rigonfia d’un tratto, avventandosi su per la pressione dal cortile sino al loggiato, sta quasi per essere deviata dalla certezza del danno che il lavacro, in uno salvatore e distruttore, compierà. Ma è un istante, e per la breccia, dove si son già cacciati alcuni pompieri, il getto è diretto contro il fuoco, forse si salveranno i manoscritti su pergamena.» Poco dopo l’1 e 40 giunse anche il Comandante Spezia che assunse il coordinamento delle operazioni di estinzione dell’incendio. Arrivarono anche due scale “Porta” che vennero posizionate una in via Vasco nel tentativo di fermare l’avanzare del fuoco su quel lato dell’edificio, e l’altra in via Po sempre con l’intento di fermare l’avanzata delle fiamme. Purtroppo le operazioni di estinzione si rivelarono lunghe e laboriose e il fuoco bruciò migliaia di volumi monti dei quali di grandissimo valore storico. I pompieri fecero il possibile e l’impossibile per contrastare l’avanzata del fuoco che veniva condotta dal tetto, dall’interno e dall’esterno dell’edificio. Purtroppo la non conoscenza dell’edificio e la non presenza, almeno nei primi momenti, del personale della biblioteca che conosceva la geografia del grande immobile, rese difficili le operazioni e il contrasto al fuoco. Verso le 4.00 una squadra di pompieri dal loggiato del cortile interno dell’Università, iniziò le operazioni per aprirsi un passaggio per penetrare nella sala dei manoscritti; la sala che custodiva i volumi più preziosi della biblioteca. L’accesso a tre metri di altezza era però protetto da un solido sportello in ferro che dovette essere abbattuto a colpi di grossi martelli. Un rumore sinistro di martelli contro una solida lamiera si aggiunse al crepitio del fuoco, dell’acqua che spasmodicamente scorreva nelle manichette, agli ordini secchi che venivano impartiti dal Comandante Spezia e dal sergente Passera. Un rumore secco che veniva amplificato dai loggiati che percorrevano i quattro lati del cortile. Il lavoro dura circa 15’ e il primo pompiere che entra dallo stretto passaggio nella sala, speranzoso di trovare una situazione indenne dall’azione del fuoco, presto ritorna sui suoi passi lanciando ai compagni che ancora dovevano entrare ‘l’allarme che il fuoco era anche lì: la sala dei manoscritti era in fiamme! «La sala dei manoscritti era l’ultima che il fuoco aveva attinto. La violenza delle fiamme s’era, in questa lotta di tre ore e mezza, esercitata d’una in altra, rabbiosa, indomabile, sulla facile preda che offrivano i libri. A guardare da via Po, tra le 5 e le 6, si scorgeva dal diverso riverbero delle finestre che soltanto quando ogni cosa, dai libri alle suppellettili, dal soffitto dell’ultimo piano al tetto del palazzo, era andato in fiamme, si placava il rogo; le prime quattro finestre dall’angolo di via Vasco sulla fronte di via Po apparivano quasi oscure e appena guizzanti di braci, quando le altre quattro contigue ancora rutilavano. Poi sotto il getto delle lance a poco a poco si smorza la gran fiammata e anche sul tetto la bragia esala in gran vapori densi che ormai solo la luce d’una fiaccola di pompiere illumina, nel cielo dove già è un primo annunzio del nuovo giorno. Sono le sei. A colpi d’ascia, prima di abbandonare il loggiato del cortile, viene infranta la porta per cui il pubblico entra nella Biblioteca: si vuol vedere se qualche pericolo minacci le due vastissime sale contigue di lettura e quella del prestito dei libri. Buia, e raccolta così che par d’entrare in un tempio, non d’essere a pochi metri dal focolare dell’incendio, la prima sala al poco lume delle scarse candele, appare subito intatta: solo è più tepida del solito per il gran calore del prossimo fuoco. Anche le contigue sale appaiono salve d’ogni minaccia, così che, compiuta la verifica, vengono presto spente le candele che inconsuetamente sono state accese in quei luoghi. Il prefetto della biblioteca, di cui è difficile esprimere la profonda angoscia, prima di lasciare il luogo della sciagura ci ricordava come da trent’anni si richiedessero provvedimenti per evitare la sciagura d’oggi. «È un incendio atteso da più di trent’anni. E pare che una sciagurata fatalità perseguiti la preziosa biblioteca che re Vittorio Amedeo II donò all’Università. Molti dei nostri Codici, infatti, erano in parte guasti dal fuoco di un altro incendio, quello del 1667, che scoppiò al palazzo Ducale, dove è ora la Prefettura. |…| Nelle quattro sale che furono preda delle fiamme vi erano custoditi le raccolte della Sezione di diritto pubblico, quella di filosofia, quella di grammatica e quella dei manoscritti. L’entità del disastro consiste appunto nella distruzione di quest’ultima raccolta. I manoscritti ivi custoditi erano oltre 4500, e tutti preziosissimi. È dunque un vero tesoro bibliografico che è andato distrutto, quasi completamente. Fortunatamente sono salvi, poiché si trovavano in altra sala lontana, altre raccolte assai preziose, come, ad esempio, le edizioni del secolo XV, la raccolta delle stampe, della musica storica e altre rarità. La Biblioteca universitaria è contenuta in 36 sale, suddivise in sei piani. I volumi contenuti nelle varie sale sommano a oltre 320.000. Per tutta la mattina nelle vicinanze del palazzo universitario è stato un continuo avvicendarsi di folla accorsa ansiosamente dai più prossimi e lontani quartieri per vedere da vicino l’estensione del disastro. La truppa, allineata a scaglioni nella via tutt’attorno, impedisce l’approssimarsi dei curiosi all’edificio, sulla cui sommità si innalzano nere nuvole di fumo nero. Sullo scheletro del tetto già distrutto dalle fiamme vigilano i pompieri colle trombe che gettano l’acqua a fiumi sui tizzoni accesi. Su per l’angusta e oscura scaletta tagliata nelle vecchie e massicce mura maestre dell’edificio, e che conduce alla biblioteca, è un via vai di pompieri, guardie, impiegati. Il passaggio è reso difficile dall’acqua che scende a rivi dall’alto. Giunti all’ultimo piano, la rovina appare in tutta la sua estensione. Le quattro grandi sale che fanno angolo Verso via Po e la via Vasco appaiono, agli occhi degli astanti, altrettanti forni ardenti. Lingue rossigne di fiamme guizzano ancora qua e là minacciose, scompaiono momentaneamente per guizzare poco dopo. Sul pavimento è un alto ammasso di macerie, tegole, mattoni, pezzi di travi carbonizzati e fumanti. I pompieri, in piedi fra le macerie, si aggirano, soli, in quel baratro fumante. Il protetto della biblioteca, attorniato da tutti gli impiegati, assiste al lavoro. Di tanto in tanto un singhiozzo gli sale alla gola e prorompe in lacrime. Nel mattino è stato un continuo accorrere di gente.»[3] Lo scenario che si presentò agli occhi dei soccorritori con la luce del mattino che filtrava dalle finestre distrutte dal fuoco, era davvero spettrale e impressionante. Chi si spingeva all’interno dell’edificio vagava smarrito e attonito tra le sale della biblioteca, avanzando con passo incerto per non calpestare e profanare ulteriormente ciò che rimaneva di quei preziosissimi manoscritti, e malfermo per le macerie che ingombravano i pavimenti delle sale. Nulla avrebbe potuto restituire alla realtà quell’immenso patrimonio andato distrutto, ma ugualmente ognuno cercava di aggirare, per quanto fosse possibile, quei cumuli che invadevano le tante sale coinvolte e distrutte dall’incendio. «Il fuoco nella biblioteca nazionale continua la sua opera di distruzione. Sotto le macerie accumulate dalla caduta dei soffitti e del tetto sovrastante alle cinque stanze fatte preda dell’elemento distruggitore ardono ancora e volumi preziosi e Codici rarissimi e manoscritti fino a lunedì gelosamente conservati. Attraverso ai rottami, sopra le macerie, sfuggono colonne di fumo, si odono crepitii sinistri che indicano come il fuoco sia domo ma non vinto. Le pareti all’interno sono ancora ritte e negli scaffali scortecciati dalle rovine del tetto e guasti dall’acqua dalla quale furono inondati, sono allineati i volumi ancora salvi, anneriti, bruciacchiati, ancora fumanti. Sembrano degli scheletri paurosi e minacciosi di una vita distrutta. Le correnti d’aria si formano attivissime attirando or qua or là il fuoco mal spento e tosto represso nel suo destarsi da getti d’acqua dei pompieri vigilanti. Nel mezzo delle stanze le bacheche schiacciate, fracassate, bruciacchiate lasciano occhieggiare qualche volume che il fuoco non ha ancora distrutto e che l’acqua ha in gran parte rovinato. Allo smassamento di queste macerie ammonticchiate lavorano, assidui, in lunga e alacre catena, soldati e pompieri: ora raccolgono i materiali in secchie di lamiera, ora li gettano per la finestra nella strada. Nel lavoro sostano di frequente per raccogliere e mettere in salvo quei volumi che appaiono ancora in uno stato di possibile conservazione. Nel precipitare nella via sottostante spesso i fogli s’incendiano e scendono a terra in una fiammata che desola i molti che hanno amato quelle raccolte e i moltissimi che ne apprezzavano il valore storico, scientifico e letterario. I volumi più preziosi e non del tutto distrutti sono stati distesi sui banchi della stanza di distribuzione e lungo i loggiati esterni della biblioteca. La maggior parte ha solo i margini carbonizzati; ma moltissimi sono stati largamente rosi e distrutti dal fuoco. Sono dei brani di libri e dei Codici di pergamene e di carte che, probabilmente, non serviranno ad altro che ad attestare la grande sventura che ha colpito la biblioteca torinese. Grondanti d’acqua, ancora fumanti, dalle pagine semi-aperte, si scorgono, fra larghe macchie d’acqua, miniature o alluminature, fregi, disegni che sono un poema di pazienza e che erano fino a ieri l’altro un tesoro per l’arte, una gloria per l’istituto che li possedeva. Attraverso la rovina che li ha colpiti, quelle miniature pazienti e quei Codici rari appaiono anche più belli e accrescono il cordoglio e l’ambascia di chi li guarda e li sa o li sente perduti per sempre. Dove il fuoco non è giunto a rovinare è giunta l’acqua. Le miniature delicatissime sono scolorite, i caratteri in colori sono scomparsi. Di alcuni volumi non si legge più neppure il titolo, in parte rimasto sovrapposto alle altre pagine, in parte scomparso in rivoletti colorati e grondanti. Non è possibile ancora conoscere quanto grande sia la sventura che colpisce nella nostra Biblioteca la nostra città. Quanta parte è salva? Quanto della parte sottratta all’incendio e alle macerie è ancora conservabile agli studiosi? Cosa potrà ancora essere salvato da un’opera di smassamento solerte e oculata? E chi lo sa? Neppure gli impiegati alla Biblioteca sanno e possono dire: essi errano agitati e disorientati, nell’ansia di saper salva una collezione, nella prostrazione del saper distrutto un prezioso cimelio. Vegliano, guardano, esaminano; ma non possono dire che così, all’ingrosso, quali collezioni sono salvate e quali perdute. Tutte le indicazioni sui volumi sono andate distrutte; come verificare, anche potendo, quali sono i volumi perduti e qual volume essi avevano? Sarà un’opera lunga e paziente: un’opera d’esame acuto, diligente quella di ricercare, riconoscere attraverso i danni del fuoco e dell’acqua i libri e i manoscritti salvati. Intanto, all’angosciosa domanda che tutti si rivolgono sull’entità dei danni, risponde una voce unanime di profondo e acuto dolore: è un danno irreparabile, una sventura non soltanto torinese, ma per tutta la cultura nazionale.»[4] All’indomani il Municipio nominò una Commissione di inchiesta, di cui riportiamo con un’apposita sezione gli esiti, con l’intento di stabilire le cause dell’incendio, ma soprattutto di stabilire l’operato dei pompieri, che subito venne messo sotto accusa di inefficienza e di errori di strategia e di attacco all’incendio. La Commissione non rilevò errori gravi nella strategia di attacco all’incendio, anzi ne evidenziò il valore e il grande impegno nel fronteggiare una situazione difficile per la conformazione e gli spazi sconosciuti dell’edificio, giungendo, quindi, alla conclusione che: «se qualche parte dei preziosi manoscritti si poté salvare ciò è dovuto all'opera speciale di due pompieri» Tra le note rilevate la commissione rilevò piuttosto come il servizio dei pompieri avesse bisogno di una rinnovata dotazione, con nuove macchine, ma soprattutto nuove scale in sostituzione delle ormai obsolete scale “Porta” in servizio dal 1864. |