2 gennaio 1958.
E dopo il tuono venne il buio e poi il silenzio.
di Michele Sforza
Erano poco dopo le 20.30 del 2 gennaio del 1958, quando l'autopompa OM Leoncino con la targa provvisoria VF 3, da meno di un mese era stata assegnata al Distaccamento dei Vigili del Fuoco Volontari di Rivarolo Canavese, una bella cittadina posta a circa trenta chilometri a nord di Torino, si scontrava con la motrice A38 delle Ferrovie Torino Nord.
Il passaggio a livello, come venne appurato subito dopo, venne incautamente lasciato aperto dal casellante, che fuggì in bicicletta dopo l'incidente. L'autopompa era diretta verso un incendio di una casa in Rocca Canavese, mentre il treno giungeva dalla vicina stazione di Favria. L'impatto fu violentissimo, tanto violento da spezzare quasi in due l'autopompa. Tra il rosso della vernice si perdevano le chiazze di sangue dei quattro pompieri morti sul colpo: Giacomo Gindro, Domenico Porello, Antonio Merlo e Renato Sacchi e quelle dei dei quattro feriti: Ezio Porello, Domenico Milano, Domenico Vecchia e Secondo Furno. Lo sgomento per la comunità di Rivarolo e per i Vigili del Fuoco fu enorme e da allora, dopo sessantatré anni, il ricordo è ancora vivissimo. Siamo nel 1982, per me una data molto precisa, e la mia conoscenza di quanto accadde quel 2 gennaio 1958 inizia proprio da quella data e con ragioni del tutto legate alla mia famiglia. Cominciai a frequentare con una certa assiduità il territorio di Favria, punto di partenza per lunghe escursioni nei luoghi circostanti e anche oltre, mosso da una voglia incontenibile di conoscenza di un bellissimo territorio, ricco anche di storia. Ricordo nettamente il fascino che provavo nel vedere la stazioncina di Favria e i tanti locomotori e carrozze del passato lasciate ad arrugginire, purtroppo, su alcuni suoi binari morti. Quei residuati della locomozione li fotografai e li toccai anche più volte. Le escursioni non potevano prescindere dalla conoscenza del bel centro storico di Rivarolo, del Malgrà, del Castellazzo, dell’irruente fiume Orco e di via Ivrea. Per arrivarci era necessario attraversare il passaggio a livello della ferrovia che collegava Pont Canavese con Settimo Torinese, proprio a metà strada tra Favria e Rivarolo. Tutte le volte che mi trovavo la barra giù del passaggio a livello per attendere il passaggio del treno, il mio sguardo incrociava quel monumento posto a margine del binario. Ancora non sapevo che in qualche modo quel monumento mi riguardava. Sono sempre stato un grande curioso di lapidi e di cippi. C’è sempre stato qualcosa di forte e di potente in loro che mi affascina, al punto tale di obbligarmi ad avvicinarmi e soffermarmi davanti a tutti quei segni di pietra, per leggere avidamente nomi, circostanze e avvenimenti. Forse sarà un innato bisogno di rendere omaggio a quei nomi, il più delle volte sconosciuti, e impadronirmi di quei fatti per farmeli propri e per contribuire a togliere un po’ di polveroso oblio su quanto scolpito su quelle pietre. Lo sento forte come un dovere e la mia mente, come in un impossibile gioco, prova ad immaginare quelle persone, quelle vite e quelle esistenze. Anche nei cimiteri una forza interiore mi spinge ad accostarmi alle lapidi, soprattutto a quelle sulle quali riconosco caratteri antichi con i quali sono fissati nomi e date, o dove vedo fotografie sbiadite dal tempo di giovani, soprattutto, la cui vita è stata interrotta per cause a me sconosciute, ma immaginabili se il soggetto è vestito da militare o se è quello di una bella e giovane ragazza in età di sposa e madre. Tutto questo mi spinse anche quella volta a fermarmi per vedere finalmente a chi e a quale circostanza fosse dedicato quel cippo. La sorpresa fu immensa quando intravvidi l’emblema di una fiamma a me famigliare e che si trattava di ben quattro vigili del fuoco. Io stesso ero un vigile del fuoco. A quel punto l’attrazione verso quel fatto divenne come una energica calamita. Volevo e dovevo saperne di più. Volevo conoscere le circostanze in cui persero la vita quei quattro colleghi. La vicinanza di quella pietra ai binari già mi svelò una prima spiegazione. Cominciai così le mie ricerche chiedendo ai colleghi più vecchi se avevano memoria di quell’avvenimento accaduto solo poco più di vent’anni prima. Venni a conoscenza della dinamica dell’incidente e venni a conoscenza anche di qualche particolare di quelle quattro vittime. Seppi che c’erano stati anche dei feriti, ma il resto era nebuloso, indefinito. Per un po’ quelle poche notizie bastarono per placare la mia sete di conoscenza di cosa accadde tra quell’asfalto e quel ferro dei binari a metà strada tra Favria e Rivarolo. Pochi anni dopo per una serie di circostanze favorevoli, riuscii a pescare tra i quintali di carta dell’Archivio Storico del Comando ai quali stavo lavorando, un plico con su scritto “Incidente di Rivarolo”. Fu un colpo di fortuna tremendo perché vennero fuori documenti, fotografie, verbali di ricostruzione, persino un grafico disegnato a mano della dinamica dell’incidente. Insomma venne fuori una vera miniera di informazioni che mi permise di quietare definitivamente il bisogno di saperne di più perché finalmente potevo toccare, avere tra le mani documenti e immagini che avrebbero permesso a me e a molti altri miei colleghi come me all’oscuro di quella tristissima vicenda, di dare una storia e un volto a quegli uomini che non sarebbero stati più solo più nomi. |