3 novembre 1966.
L'alluvione di Firenze
A cura di Michele Sforza
La sera del 3 novembre 1966 per Firenze era una sera come tante altre.
Lo era anche per il sindaco Bargellini, per i fiorentini e per i tanti turisti che affollavano come sempre la città.
Era una sera qualunque anche per i pompieri di Firenze alle prese con i normali interventi di soccorso.
La città dorme mentre la catastrofe incombe, mentre l’ondata di piena scaricata dalle dighe del Valdarno e dai vari affluenti è alle sue porte.
Nelle zone basse della città già galleggiano alberi e automobili. Saltata la luce, niente acqua e niente gas.
Le prime falle si aprono al lungarno Acciaroli.
Qualcuno, i primi fiorentini svegliati da qualcosa di insolito, comincia a correre verso il Ponte Vecchio perché gira voce che sarebbe crollato di lì a poco.
Ore 7,26.
Gli orologi elettrici si fermano a quell’ora e segnano l’inizio dell’agonia di Firenze.
Alle 9.45 l’acqua irrompe in Piazza del Duomo. Ormai un grande lago copre la città.
Le spallette del lungarno non esistono più. Ogni cosa viene travolta dalla furia dell’acqua: gli alberi, il selciato delle strade, grossi frammenti di costruzioni … persone.
Centinaia di auto, come proiettili da una tonnellata vengono scagliate contro muri, porte, serrande, pali.
Quella di Firenze è un'emergenza nell'emergenza: infatti, quasi tutto il centro e il settentrione d'Italia vengono duramente provati dal maltempo.
L’intero Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco si mobilita, compiendo in poco più di un mese più di centocinquantamila interventi di salvataggio e di soccorso.
La cronaca ci riporta la testimonianza di un anonimo vigile:
«Raggiungiamo Corso Tintori e non possiamo far altro che cominciare coi badili a riempire di mota i camion con cui siamo arrivati e scaricarli in Arno.
Numerose carogne di gatti e altri animali confermano il pericolo di epidemie del quale abbiamo già sentito parlare. C'è un forte odore di marcio e di nafta, sprofondiamo fino al ginocchio e lavoriamo con le gambe a mollo (gli stivali di gomma arriveranno dopo molti giorni). Le vie sono pattugliate dai Carabinieri per timore di sciacalli che potrebbero approfittare delle case e dei negozi aperti o sfondati.
Per proseguire il nostro lavoro dobbiamo spostare le automobili che la piena ha abbandonato nelle posizioni più strane. In un attimo di sosta vorrei salire le scale della Biblioteca Nazionale per vedere al lume della torcia i disegni di Leonardo che sono esposti in mostra, vedo una luce brillare alle finestre e penso che possa trattarsi di ladri; appena vedo un vigile urbano glielo dico, ma mi tranquillizza dicendo che la mostra è sorvegliata dalla Polizia.
Accanto alla riva destra, vicino al Ponte Vecchio, vedo ormeggiata una nostra imbarcazione, non so di quale Comando, dalla quale un sommozzatore si tuffa per cercare nell'acqua gelida una cassaforte che la piena ha strappato da un negozio del Ponte. Quando emerge ha la faccia gonfia e viola dal freddo e si rifocilla con alcuni sorsi di cognac
Con l'attenuarsi della sensazione iniziale di tragedia si ricomincia a guardare le donne, abbiamo vent'anni e le fiorentine sono belle...».
Ancora una testimonianza; quella dell’ex Capo Reparto Giulio Filippone di Torino che ci racconta:
«Ho di quell’avvenimento un ricordo meraviglioso e incancellabile seppur tragico.
Siamo partiti da Torino nella giornata del 4 novembre.
Giungiamo a Firenze il 5, dopo aver superato tante difficoltà per la precarietà delle strade e perché i nostri mezzi ci davano non pochi problemi.
Da subito abbiamo operato con i mezzi nautici che avevamo al seguito e alcuni di noi, ricordo Raccanello e Bogino, vennero inviati subito a Figline Valdarno dove la situazione era critica come a Firenze.
Io ed altri cinque colleghi andammo ad operare nella Biblioteca Nazionale, dove rimanemmo per ben 25 giorni senza mai muoverci dal fango e dall’acqua.
Uscivamo solo la sera tardi per andare a dormire nei nostri mezzi ammassati a Campo di Marte, piuttosto che alloggiare in una rimessa militare, che era stata sgomberata dai carri armati per far posto ai soccorritori.
Avevamo poco a disposizione e quasi sempre lavoravamo con le mani nel fango alla ricerca disperata dei preziosissimi libri, o di quello che ne rimaneva.
Sul posto cercavamo di ingegnarci per trovare ogni possibile soluzione per impedire l’ulteriore danneggiamento dei preziosi beni storici e per recuperare quelli già impastati con il fango.
Dovevamo fare qualcosa per evitare che le pagine sciolte venissero irrimediabilmente trascinate dall’acqua nei tombini.
Ricordo che preparai con Boretti un attrezzo semplice ma efficace.
Recuperammo da qualche parte delle pentole, le bucammo e le adattammo ai tombini. Insomma dei rudimentali colapasta che ci permisero di recuperare molto materiale cartaceo.
Piccole ma efficaci soluzioni trovate sul campo; una predisposizione all’adattamento che da sempre caratterizza il pompiere. Si dice tra di noi “dateci una pinza e un fil di ferro che vi costruiamo un aereo”. L’esempio è forse esagerato, ma efficace per far intendere come in determinate circostanze l’intervento, al di là di ogni pianificazione, lo si risolve con scelte estemporanee.
Abbiamo lavorato a stretto contatto con quei ragazzi giunti da tutto il mondo, che avrebbero chiamato poi gli “Angeli del fango”.
Ma eravamo anche noi angeli del fango. Per settimane abbiamo condiviso fatiche e sofferenze, in perfetto silenzio nei momenti di tensione, sgomenti ma attenti a ciò che facevamo, pur senza capirci perché parlavamo lingue differenti.
Ci bastavano pochi gesti e sguardi di intesa per trovare il giusto affiatamento.
Questa di Firenze non fu purtroppo l’ultima alluvione che ha colpito il territorio italiano in anni recenti. In trent’anni ben sette eventi alluvionali hanno causato morte e distruzione dal nord al sud del nostro Paese.
Il 2 novembre 1968 il fiume Tanaro sommerge la periferia di Asti. A Biella l’alluvione spazza via interi fabbricati e ben 72 persone.
7 settembre 1970, Genova, 25 morti.
19 luglio 1985, Val di Stava, 360 morti.
E poi Valtellina, Piemonte, Sarno.
Gli ultimi in ordine di tempo ai quali richiamiamo la nostra memoria che certamente ricorda l’elevato numero di vittime.
Lo era anche per il sindaco Bargellini, per i fiorentini e per i tanti turisti che affollavano come sempre la città.
Era una sera qualunque anche per i pompieri di Firenze alle prese con i normali interventi di soccorso.
La città dorme mentre la catastrofe incombe, mentre l’ondata di piena scaricata dalle dighe del Valdarno e dai vari affluenti è alle sue porte.
Nelle zone basse della città già galleggiano alberi e automobili. Saltata la luce, niente acqua e niente gas.
Le prime falle si aprono al lungarno Acciaroli.
Qualcuno, i primi fiorentini svegliati da qualcosa di insolito, comincia a correre verso il Ponte Vecchio perché gira voce che sarebbe crollato di lì a poco.
Ore 7,26.
Gli orologi elettrici si fermano a quell’ora e segnano l’inizio dell’agonia di Firenze.
Alle 9.45 l’acqua irrompe in Piazza del Duomo. Ormai un grande lago copre la città.
Le spallette del lungarno non esistono più. Ogni cosa viene travolta dalla furia dell’acqua: gli alberi, il selciato delle strade, grossi frammenti di costruzioni … persone.
Centinaia di auto, come proiettili da una tonnellata vengono scagliate contro muri, porte, serrande, pali.
Quella di Firenze è un'emergenza nell'emergenza: infatti, quasi tutto il centro e il settentrione d'Italia vengono duramente provati dal maltempo.
L’intero Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco si mobilita, compiendo in poco più di un mese più di centocinquantamila interventi di salvataggio e di soccorso.
La cronaca ci riporta la testimonianza di un anonimo vigile:
«Raggiungiamo Corso Tintori e non possiamo far altro che cominciare coi badili a riempire di mota i camion con cui siamo arrivati e scaricarli in Arno.
Numerose carogne di gatti e altri animali confermano il pericolo di epidemie del quale abbiamo già sentito parlare. C'è un forte odore di marcio e di nafta, sprofondiamo fino al ginocchio e lavoriamo con le gambe a mollo (gli stivali di gomma arriveranno dopo molti giorni). Le vie sono pattugliate dai Carabinieri per timore di sciacalli che potrebbero approfittare delle case e dei negozi aperti o sfondati.
Per proseguire il nostro lavoro dobbiamo spostare le automobili che la piena ha abbandonato nelle posizioni più strane. In un attimo di sosta vorrei salire le scale della Biblioteca Nazionale per vedere al lume della torcia i disegni di Leonardo che sono esposti in mostra, vedo una luce brillare alle finestre e penso che possa trattarsi di ladri; appena vedo un vigile urbano glielo dico, ma mi tranquillizza dicendo che la mostra è sorvegliata dalla Polizia.
Accanto alla riva destra, vicino al Ponte Vecchio, vedo ormeggiata una nostra imbarcazione, non so di quale Comando, dalla quale un sommozzatore si tuffa per cercare nell'acqua gelida una cassaforte che la piena ha strappato da un negozio del Ponte. Quando emerge ha la faccia gonfia e viola dal freddo e si rifocilla con alcuni sorsi di cognac
Con l'attenuarsi della sensazione iniziale di tragedia si ricomincia a guardare le donne, abbiamo vent'anni e le fiorentine sono belle...».
Ancora una testimonianza; quella dell’ex Capo Reparto Giulio Filippone di Torino che ci racconta:
«Ho di quell’avvenimento un ricordo meraviglioso e incancellabile seppur tragico.
Siamo partiti da Torino nella giornata del 4 novembre.
Giungiamo a Firenze il 5, dopo aver superato tante difficoltà per la precarietà delle strade e perché i nostri mezzi ci davano non pochi problemi.
Da subito abbiamo operato con i mezzi nautici che avevamo al seguito e alcuni di noi, ricordo Raccanello e Bogino, vennero inviati subito a Figline Valdarno dove la situazione era critica come a Firenze.
Io ed altri cinque colleghi andammo ad operare nella Biblioteca Nazionale, dove rimanemmo per ben 25 giorni senza mai muoverci dal fango e dall’acqua.
Uscivamo solo la sera tardi per andare a dormire nei nostri mezzi ammassati a Campo di Marte, piuttosto che alloggiare in una rimessa militare, che era stata sgomberata dai carri armati per far posto ai soccorritori.
Avevamo poco a disposizione e quasi sempre lavoravamo con le mani nel fango alla ricerca disperata dei preziosissimi libri, o di quello che ne rimaneva.
Sul posto cercavamo di ingegnarci per trovare ogni possibile soluzione per impedire l’ulteriore danneggiamento dei preziosi beni storici e per recuperare quelli già impastati con il fango.
Dovevamo fare qualcosa per evitare che le pagine sciolte venissero irrimediabilmente trascinate dall’acqua nei tombini.
Ricordo che preparai con Boretti un attrezzo semplice ma efficace.
Recuperammo da qualche parte delle pentole, le bucammo e le adattammo ai tombini. Insomma dei rudimentali colapasta che ci permisero di recuperare molto materiale cartaceo.
Piccole ma efficaci soluzioni trovate sul campo; una predisposizione all’adattamento che da sempre caratterizza il pompiere. Si dice tra di noi “dateci una pinza e un fil di ferro che vi costruiamo un aereo”. L’esempio è forse esagerato, ma efficace per far intendere come in determinate circostanze l’intervento, al di là di ogni pianificazione, lo si risolve con scelte estemporanee.
Abbiamo lavorato a stretto contatto con quei ragazzi giunti da tutto il mondo, che avrebbero chiamato poi gli “Angeli del fango”.
Ma eravamo anche noi angeli del fango. Per settimane abbiamo condiviso fatiche e sofferenze, in perfetto silenzio nei momenti di tensione, sgomenti ma attenti a ciò che facevamo, pur senza capirci perché parlavamo lingue differenti.
Ci bastavano pochi gesti e sguardi di intesa per trovare il giusto affiatamento.
Questa di Firenze non fu purtroppo l’ultima alluvione che ha colpito il territorio italiano in anni recenti. In trent’anni ben sette eventi alluvionali hanno causato morte e distruzione dal nord al sud del nostro Paese.
Il 2 novembre 1968 il fiume Tanaro sommerge la periferia di Asti. A Biella l’alluvione spazza via interi fabbricati e ben 72 persone.
7 settembre 1970, Genova, 25 morti.
19 luglio 1985, Val di Stava, 360 morti.
E poi Valtellina, Piemonte, Sarno.
Gli ultimi in ordine di tempo ai quali richiamiamo la nostra memoria che certamente ricorda l’elevato numero di vittime.