La tragedia in fondo ad un pozzo: Vermicino.
Oggi tutto è diventato spettacolo. Anche la morte di un essere umano, se filmato e scaraventato in rete può essere fonte di “diletto”, quasi come un film o uno show. Con questo non voglio dire che bisogna girare la testa dall’altra parte e far finta di niente nei confronti di un dramma collettivo o del dolore privato, e non vuole nemmeno essere una valutazione cinica la mia, ma penso che non sapere sempre e in ogni momento tutto ciò che accade nel mondo, non credo sia sempre negativo. Anzi forse ci rende un po’ migliori perché ci preserva da scene raccapriccianti e spesso voyeuristicamente inutili.
Penso ai danni provocati dai fiumi di lacrime in diretta di fratelli o amanti che si ritrovano dopo quarant’anni o le emulazioni che hanno provocato i video reperibili in rete, sulle violenze commesse dai tanti gruppi terroristici in giro per il mondo, e quanto tutto questo abbia affascinato quei soggetti mentalmente e psicologicamente meno centrati. La domanda che mi pongo in questi casi, forse banale e sempliciotta nella sua formulazione e sostanza, è: «ma io cosa potevo fare per evitare quello che è accaduto?». «Vedere in diretta il dolore, il dramma o addirittura la morte di un essere umano, può servire a qualcosa?». Forse si perché smuove le coscienze. Ma forse anche no se il dolore si trova a buon mercato in tv o in rete. Comunque come disse Humphrey Bogart: «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!». Questa mia riflessione cominciò nell’ormai lontano 10 giugno 1981. Da quel giorno almeno in Italia mutarono le modalità di dare in pasto le notizie più gravi e “spettacolari”, cambiando per sempre il rapporto tra il diritto all’informazione e i modi con i quali viene data. Parlo dell’incidente di Vermicino in cui morì il piccolo Alfredo Rampi detto Alfredino. Una tragedia famigliare come tante, ma che divenne tragedia collettiva per la spettacolarizzazione che ne venne fatta. Era la sera del 10 giugno 1981. Alfredino cascò in un pozzo profondo 80 metri e largo poco meno di trenta centimetri. Il bambino inizialmente si fermò a 36 metri, poi scivolò sino a meno sessanta. Scatto da subito la macchina dei soccorsi, impotente per la criticità della situazione e per la disorganizzazione. Non farò la cronaca delle sessanta ore di tentativi andati a vuoto; tuttavia i TG ne parlarono tutto il giorno seguente e parlarono dei tentativi che compirono molti speleologi, alcuni dei quali riuscirono a stabilire anche un contatto fisico con Alfredino. Venne calato anche un microfono per permettere al bimbo di essere ascoltato. Colpevolmente, a mio giudizio, la voce implorante e agonizzante di Alfredino venne inviata alla diretta televisiva che entrò con la violenza di un pugno nello stomaco, nella vita di tutti noi. Ce l’ho ancora nelle orecchie e nel cervello la vocina sempre più flebile del bambino che man mano si allontanava dalla vita, mentre fuori tutti erano nel pallone più assoluto, con le migliaia di curiosi, non contenuti dalle forze dell’ordine, che riuscirono persino ad avvicinarsi all’imbocco del pozzo. Quella notte ero di servizio e con tutti i colleghi del turno, tra un servizio di soccorso e l’altro, assistemmo al televisore dell’Aula Magna per tutta la notte, al consumarsi del dramma, alla vita che abbandonava il piccolo Alfredo, impotenti, sgomenti e atterriti per quello che vedevamo e ascoltavamo. |