13 marzo 1987 - Ravenna
La tragedia della nave "E. Montanari"
"PORTO DI RAVENNA PER UN PROBABILE INCENDIO DI NAVE"
di Elio Cangini
Quel venerdì mattina, 13 marzo 1987, era iniziato il turno di servizio nella sede centrale dei VVF di Ravenna, così come tante altre volte. Dopo il consueto controllo dei mezzi di partenza, ogni pompiere si accingeva a svolgere i propri abituali incarichi di caserma. Io ero stato destinato ad accompagnare una scolaresca in visita alla nostra struttura per illustrare ai ragazzi: i mezzi, le attrezzature e le mansioni tipiche del lavoro di Vigile del Fuoco.
Alle 9 circa, partiva dal centralino la chiamata di soccorso per la Prima Partenza: “ Porto di Ravenna - Probabile incendio di una nave”
Per una scolaresca in visita alla caserma dei pompieri, questo è uno dei momenti più elettrizzanti, perché vedere spuntare uomini di corsa, dai vari angoli della caserma, qualcuno addirittura scendere dal palo, ed in pochi attimi trovarli tutti sul mezzo di partenza che esce a sirene spiegate, è uno spettacolo che nei ragazzi suscita sempre molto stupore ed ammirazione. Così era successo anche quella volta. La differenza in quel caso però fu che, a quella prima chiamata ne seguì a breve una successiva che mandava la seconda partenza in supporto alla prima.
Anch’io venivo staccato da quell’incontro, con gli studenti, per poter accorrere con l’autoambulanza verso il porto, dove sempre più stava delineandosi la necessità d’intervenire su un incidente a bordo di una nave con la presenza di probabili feriti. Come avviene in questo genere di sciagure le comunicazioni radio, durante il tragitto, erano piuttosto concitate e frammentarie, ma ormai si cominciava già a capire che si trattava di un episodio di una certa gravità, e si prospettava il dover andare a soccorrere alcune persone intrappolate all’interno della nave, ferma nel porto nelle aree adibite alle risistemazioni.
Arrivato sul posto ci portavamo presso la gasiera “Elisabetta Montanari”, posta all’interno del bacino di carenaggio, in zona asciutta. Nello scafo erano in corso lavori di manutenzione, quando inavvertitamente, a causa degli scarsi sistemi di sicurezza, era partito un incendio incontrollato che aveva prodotto consistenti esalazioni di fumo e gas tossici. All’interno sapevamo fossero intrappolati alcuni operai adibiti a quel pericoloso compito, il numero non era ancora noto, prima si parlava di 2 o 3, … poi di 5 o 6 … in realtà la situazione si dimostrò poi ben più tragica.
Il primo tentavo per entrare dai boccaporti era stato vano, i ventilatori posti sopra di essi ostacolavano il passaggio; inoltre, il tempo ormai trascorso dalla chiamata a quello delle operazioni in atto, lasciava presagire che per i lavoratori intrappolati nella stiva non ci fosse più alcuna possibilità di vita, in quanto oltre ai densi fumi si erano create forti esalazioni di acido cianidrico.
Fu quindi deciso di aprire, con la fiamma ossidrica, un varco su una parete dello scafo e da lì quindi penetrare all’interno.
Entrare in quell’ambiente invaso dal fumo, dove non si vedeva nulla, senza capire su cosa si stesse camminando si mostrava come sempre un compito assai arduo. Già altre volte l’avevo fatto, indossato l’autoprotettore, legato con cordino alla cintola con nodo addominale, nello stesso modo, procedevo in quella sorta di antro infernale, facendo scivolare i piedi sul pavimento, per capire se vi fossero buchi o ostacoli, col dorso della mano cercavo di tenermi vicino ad una parete per intuire il percorso fatto. In questi casi ti sembra di percorrere molta più strada di quella che in realtà stai percorrendo. Stavo facendo tutto così come mi avevano insegnato alle Scuole Antincendio ed avevo personalmente sperimentato in anni di servizio, ma questa volta capivo che era diverso. Nonostante quella sorta di corazza d’impassibilità che ogni pompiere è costretto a calzare in situazioni del genere, quello stato d’animo adrenalinico che ti permette di pensare essenzialmente a quello che stai facendo, senza lasciarti coinvolgere troppo emotivamente, andavo avanti, cercando di evitare possibilmente ogni pericolo, ma nello stesso tempo di non trascurare alcun gesto utile al soccorso; a volte ero costretto a procedere tentoni.
Purtroppo, comparvero le prime vittime, uno era ancora attaccato alla scaletta, perito nel disperato tentativo di salirvi per scappare fuori. Successivamente, io ed i miei compagni cominciammo a trovare le altre salme e portarle fuori una ad una con non poche difficoltà. Alla fine, ne contammo 13. Sul posto erano accorsi anche altri rinforzi giunti da Faenza e Forlì e ci diedero il cambio, in modo potessimo rientrare in centrale.
La fatica a cui fino a quel momento non avevamo fatto caso ci piombava addosso con la sua pesante coltre.
Non era solo fatica fisica, era anche una riconquistata consapevolezza di quanto avevamo visto e vissuto. Un tormentoso pensiero per quei poveri 13 operai e lo strazio delle loro famiglie. Per lungo tempo ogni qual volta mi capitava di trovarmi solo al buio percepivo nuovamente quei rumori, quel caldo umido ed il bisogno di ricorrere ancora a quegli strumenti utili ad ogni pompiere per vincere le difficoltà, anche psicologiche.
Oggi quando mi rivedo nelle foto di quel giorno, stento quasi a riconoscermi in quel ragazzo. Tanto tempo è passato, ma al pensiero di quel momento le emozioni riemergono ancora forti.
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A 36 ANNI DALLA TRAGEDIA DELLA MOTONAVE "ELISABETTA MONTANARI"
di Ivo Burbassi (all’epoca dei fatti Vice-Comandante)
Sono trascorsi 36 anni da quel tragico 13 Marzo 1987. L’incidente sul lavoro che causò la morte di tredici operai. Mai, in tutto il mondo, sono morte tante persone in un unico incidente sul lavoro. Erano addetti ai lavori di manutenzione di una nave gasiera, portata a secco per lavori di manutenzione nel bacino di carenaggio del porto di Ravenna.
Sono un pensionato del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Ho lavorato per 30 anni prima come Vigile e successivamente come Vice Comandante dei VV.F. di Ravenna. Quel giorno ho coordinato le squadre per l’intervento di soccorso in quella dolorosa giornata. Alcuni anni fa ho conosciuto Pierpaolo Zoffoli, giovane autore/attore dell’opera teatrale “In fondo a quella nave”. Con Pierpaolo abbiamo ricostruito, ragionato e approfondito le dinamiche dell’avvenimento e, di recente, ho assistito ad una rappresentazione della sua opera. Dagli spettatori ho percepito che, dopo tanti anni, l’avvenimento è stato quasi completamente dimenticato. Quando non è sconosciuto non solo alle giovani generazioni ma anche ai meno giovani. Ho pertanto condiviso la volontà di riproporlo per non dimenticare.
L’emozione che ho comunque riscontrato nel pubblico e che personalmente ho provato nell’assistere alla rappresentazione teatrale, mi ha fatto comprendere l’importanza di riparlare di quel tragico avvenimento. Come utile sensibilizzazione alla conoscenza delle problematiche della sicurezza sul lavoro. Tematica ancora oggi troppo spesso trascurata o dimenticata. Al caro prezzo dei tanti, troppi infortuni e decessi di cui sono piene le cronache.
La nave “Elisabetta Montanari”
La nave era adibita al trasporto di GPL (gas di petrolio liquefatto) contenuto in sei grandi serbatoi. Due collocati nella stiva lato prua, altri due nella stiva lato poppa. Due all’aperto, sul ponte della nave. I tecnici del Registro navale Italiano (RINA), nel corso di una ispezione periodica, avevano riscontrato che diverse lamiere del doppio fondo, destinato ad utilizzare l’olio combustibile per l’alimentazione dei motori, dovevano essere sostituite per l’avanzato stato di corrosione. Quindi la nave, per l’esecuzione dei lavori, era stata tirata a secco nel bacino di carenaggio del porto di Ravenna. I lavori erano stati affidati alla società Mecnavi. I doppi fondi, prima di procedere al taglio e alla sostituzione delle lamiere, dovevano essere svuotati con elettropompe dall’olio combustibile e bonificati al fine di prevenire incendi durante le operazioni di taglio e saldatura. La bonifica finale dei residui oleosi e delle morchie veniva effettuata con il recupero a mano utilizzando spugne, stracci, segatura e secchielli.
I doppi fondi, realizzati fra la chiglia della nave e il piano di calpestio della stiva, avevano una altezza variabile da 0,60 a 1,30 metri. I “passi d’uomo” fra i vari comparti, di forma ovale, erano delle dimensioni massime di cm. 40 x 50 (dimensioni ridotte al minimo per non indebolire le strutture della nave). I limitati spazi per il movimento, la presenza delle esalazioni dell’olio, la mancanza di ventilazione determinavano che i lavori di bonifica fossero particolarmente disagevoli e gravosi. Venivano quindi impiegati soprattutto giovani alla loro prima occupazione. L’accesso ai doppi fondi della stiva numero due era possibile esclusivamente attraverso una botola posta nella predetta stiva (posta sul lato poppa).
L’intervento di soccorso
La chiamata di soccorso arrivò alla centrale operativa dei VV.F. alle ore 9,08. Fu formulata come richiesta di “un generico incendio di una nave in banchina”. Partimmo immediatamente con tutte le squadre e con tutti i mezzi disponibili. Durante il percorso avvistammo una nera colonna di fumo e richiedemmo pertanto anche l’invio a supporto delle squadre dei distaccamenti di Faenza e di Lugo oltre che del Comando di Forlì. Quella mattina all’interno della stiva e nei doppi fondi erano al lavoro ventuno operai. Si trattava di sei carpentieri-saldatori, per il taglio, la sostituzione e la saldatura delle lamiere dello scafo ammalorate. Operavano poi dodici “picchettini” dotati di martelline a punta e secchi per la rimozione e la raccolta delle croste di ossido di ferro oltre a tre giovani ragazzi addetti al ricupero dell’olio combustibile residuo dai doppi fondi.
Al nostro arrivo nel cantiere procedemmo ad una rapida ricognizione. Immediatamente dopo, ricevute indicazioni dall’Ingegnere Direttore dei Lavori, io e una squadra ci recammo sul fondo del bacino, sotto la chiglia della nave. Qui ci indicarono e udimmo chiaramente dei colpi contro le lamiere provenire dall’interno della nave. Erano originati da alcuni operai che, intrappolati nei doppi fondi, chiedevano aiuto. Rispondemmo con altrettanti colpi dall’esterno nell’intento di confermargli la nostra presenza e per assicurare loro il nostro intervento per aprirgli un varco. Da subito, con l’ausilio di una fiamma ossidrica, iniziammo il taglio delle lamiere allo scopo di realizzare un’apertura per raggiungere gli operai. L’operazione si presentava comunque particolarmente rischiosa per il possibile innesco di un ulteriore incendio all’interno dei doppi fondi. Affrontammo inevitabilmente il rischio, non esistendo altre possibili alternative per raggiungere i lavoratori che chiedevano aiuto.
Una seconda squadra, con l’ausilio degli autorespiratori, cercò di portare soccorso ai lavoratori bloccati nei doppi fondi. Tentò di raggiungere il passo d’uomo a poppa della stiva attraverso uno stretto corridoio esistente fra i due serbatoi. Tentativo che risultò impossibile per le fiamme e le alte temperature presenti nella stiva stessa.
Una terza squadra iniziò le operazioni di contenimento dell’incendio con getti di schiuma e poi di acqua per il raffreddamento attraverso l’apertura esistente sul fondo della stiva oltre che dai boccaporti presenti sul ponte della nave. L’attacco all’incendio fu purtroppo rallentato dalla necessità di approvvigionarsi di acqua dal porto canale con le pompe della motobarca VV.F. giunta sul posto e non dagli idranti presenti nel bacino di carenaggio Inutilizzabili, in quanto l’impianto fisso antincendio era inattivo da diversi mesi.
Durante le operazioni di taglio delle lamiere non udimmo più provenire dall’interno della stiva le richieste di aiuto. Quando, dopo aver aperto il varco, due vigili raggiunsero finalmente l’interno del doppio fondo, capimmo con grande frustrazione, che purtroppo il nostro tentativo di portare soccorso era fallito. Da quel varco infatti, con enormi difficoltà e dopo tante manovre, i vigili riuscirono a portare all’aperto tre corpi, privi di vita, dei ragazzi addetti alla pulizia dei doppi fondi.
Dei ventuno operai al lavoro, sei carpentieri-saldatori e due picchettini che lavoravano sul piano della stiva si portarono all’esterno in autonomia utilizzando l’unica grande apertura realizzata sul piano della stiva (verso prua della nave).
In seguito, dopo aver circoscritto e poi spento l’incendio, continuammo l’opera di raffreddamento delle lamiere della stiva e dei serbatoi. Demmo inizio anche all’aspirazione dei fumi con l’ausilio dei motoventilatori. Ma solo dopo le 11,30 fu possibile accedere alla stiva. Avviammo così l’ispezione di tutti i luoghi accessibili e il tragico recupero dei corpi. Il drammatico bilancio non fu di uno o due persone, come ci era stato inizialmente segnalato, ma di 13 corpi senza vita.
L’ultimo corpo ritrovato e portato all’esterno fu quello di Vincenzo Padua. Era il più anziano, a pochi mesi dalla pensione. Unico dipendente Mecnavi, che lavorava nella stiva come picchettino. Lo ritrovammo appoggiato con la schiena al fianco della nave; con il secchio in mezzo alle gambe e con la testa reclinata sul petto. Praticamente non si era mosso dalla propria posizione di lavoro.
Dall’esame dei corpi i medici accertarono che la morte non era avvenuta per le ustioni, né per le alte temperature, ma per l’inalazione dei fumi. I miasmi tossici emessi dalla combustione del poliuretano espanso e della banda catramata che avvolgeva, per l’isolamento termico, i due grandi serbatoi della stiva. I fumi generati dall’incendio erano composti dall’ossido di carbonio e soprattutto da vapori di acido cianidrico. Vapori originati dalla combustione del poliuretano che, se inalati, portano alla perdita di conoscenza entro 10-15 minuti e alla morte per asfissia in 30-40 minuti.
Nel tardo pomeriggio terminammo tutte le operazioni connesse all’intervento oltre alla illustrazione alle autorità dei luoghi e della dinamica dell’evento. Rientrai a casa e tentai di raccontare l’accaduto a mia moglie e ai figli. Non vi riuscii in quanto profondamente commosso e turbato. Mi appoggiai con un braccio e con la testa allo stipite di una porta e scaricai tutta la tensione accumulata nelle ore dell’intervento. Con la consapevolezza dell’inefficacia del nostro lavoro, non essendo riusciti a mettere in salvo nessuno degli operai. Con stampata nella mente la visione straziante dei volti dei poveri corpi sporchi di morchie e di olio. Morti solo perché spinti dalla necessità di avere un lavoro. Scaricai la tensione di quella terribile giornata in un lungo pianto come non avevo mai fatto e, ora posso dirlo, come non ho fatto mai più successivamente.
Evento catastrofico altamente probabile
Dalla perizia di 252 pagine redatta dal Collegio dei Periti della Commissione d’inchiesta consegnata alla Procura di Ravenna l’incidente veniva descritto come “un evento catastrofico altamente probabile” originato da una serie di cause che qui riassumo;
• indisponibilità di estintori e indisponibilità dell’impianto idrico antincendio. Fu infatti accertato che l’operaio saldatore che innescò accidentalmente una chiazza di olio combustibile presente sul piano della stiva tentò di spegnere il principio d’incendio, senza successo. Utilizzando i guanti da lavoro e stracci non avendo alcun estintore a disposizione. In un secondo momento alcuni operai stesero la tubazione di un idrante installato nel bacino di carenaggio ma le pompe dell’impianto erano inattive da parecchi giorni per una perdita nella rete e non uscì neanche una goccia d’acqua. Vorrei qui ricordare un proverbio cinese che recita; “per spegnere un incendio subito basta un bicchiere d’acqua (estintore), dopo un po’ ne occorre un secchio (idrante) e dopo... si fa quel che si può” (il nostro intervento). È spaventoso dover ammettere che se fossero stati presenti uno o due estintori e se l’idrante avesse erogato acqua quelle tredici vite sarebbero ancora fra noi.
• carenza o inefficienza dell’impianto di aerazione-ventilazione, di illuminazione d’emergenza e di allarme per l’emergenza. Nella stiva erano presenti i fumi delle saldature e del taglio delle lamiere. La mancanza di illuminazione e di un sistema di allarme non permise all’operaio di vedere la chiazza di olio che innescò l’incendio e successivamente di allarmare prontamente tutti gli altri operai al lavoro nella stiva. La mancanza di un impianto di ventilazione-aerazione per lo smaltimento dei fumi non rese possibile comprendere immediatamente che si era sviluppato un incendio. Infatti nessuna delle dieci persone al lavoro, ai vari livelli della stiva, fu in grado di mettersi in sicurezza autonomamente sia per il mancato allarme, sia per l’impossibilità di distinguere i fumi dell’incendio dagli altri fumi presenti nell’ambiente.
• mancanza per gli operai al lavoro nei doppi fondi di una seconda via d’uscita. Per ottenere la seconda via d’uscita era necessario aprire un varco sul fianco della nave. L’opera, richiesta dalla direzione Lavori, non era stata effettuata per l’opposizione dei titolari del cantiere. Rifiuto motivato dalla “necessità” di contenere i costi e i tempi di realizzazione. Conseguentemente l’unica via possibile che i tre operai avrebbero potuto percorrere per mettersi in salvo era costituita dallo stretto corridoio. Corridoio che venne invaso dal calore e dalle fiamme generati dall’incendio del rivestimento dei due serbatoi;
• assenza di personale qualificato e addestrato per affrontare un principio d’incendio (guardie fuoco, addetti alla sicurezza del cantiere, ecc.);
• inesperienza e bassa qualificazione di quasi tutto il personale addetto ai lavori (saldatori senza patentino, direttore dei lavori non qualificato, capi cantiere non autonomi ma asserviti alle volontà dei titolari);
• inadeguatezza della capacità di deflusso delle vie di fuga e inesistenza di uscite di sicurezza alternative ovvero che da ogni punto della nave fosse possibile in caso d’emergenza, scegliere e praticare una via d’uscita sicura per raggiungere l’esterno della nave.
In sintesi, le principali cause, all’origine del tragico evento, possono essere così riassunte:
• nessun provvedimento di prevenzione dagli incendi per lavori con fiamma (taglio e saldatura dei metalli) in ambiente con elevato rischio d’incendio;
• nessuna protezione dal rischio d’incendio per la mancanza di estintori e/o di idranti per l’estinzione;
• nessuna sicurezza strutturale della nave determinata dalla presenza di coibentazioni dei serbatoi esposte ad un elevato rischio d’incendio in occasione di lavori di manutenzione con fiamme libere.
Uomini ridotti a topi
Voglio riproporre, perché piene di significato, una parte delle parole pronunciate da Monsignor Tonini, Vescovo di Ravenna. Già la sera prima dei funerali nell’intervista rilasciata alla RAI, non usò mezzi termini “Mi viene la voglia di urlare, di gridare, anche se quando avrò davanti a me in Duomo quelle povere salme dovrò contenermi. Ma certe cose dovrò dirle. Come è possibile, in questo momento in cui le tecnologie sostituiscono l’uomo nelle funzioni più complesse, che non si trovino per risparmiare alle creature umane il degrado, i lavori umilianti, la morte”.
Nella sua omelia del 16 marzo Monsignor Tonini seppe colpire al cuore con parole indimenticabili; “Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto; No, figlio mio. Meglio povero, ma con noi. Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare dieci ore in cunicoli dove – posso dire la parola? Non vorrei scandalizzare – dove possono camminare e vivere solo i topi! Uomini e topi! Parola dura, detta da un Vescovo all’altare; eppure deve essere detta, perché mai gli uomini possono essere ridotti a topi… Non è vero che il mondo del lavoro è ormai del tutto in ordine. Proprio lì si svelano ora zone di sofferenza estrema e autentica disumanità… I primi a farne le spese risultano essere i giovani, posti di fronte al ricatto: o trascinarsi a una disoccupazione logorante, spregevoli a sé e agli altri, o mostrarsi disponibili a tutto, al lavoro nero, alle prestazioni più umilianti, al rischio di morire come topi in trappola”.
Era intenzione del monsignore suscitare un allarme più generale: “da Ravenna, dalla stiva di quella nave si leva una denuncia; l’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più pregiati, il rispetto mutuo, la pietà, la solidarietà, in una parola; la capacità di amare… Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine fra il bene e il male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quella attenzione all’onestà che gli stessi atei della nostra Romagna hanno conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli.”
Sull’infinito strazio dei genitori la voce si fece più cupa, avendo constatato “che cosa accade nei genitori quando gli uccidono un figlio; da allora il sole non è più sole, il cielo non è più cielo, il bianco non è più bianco, niente ha più sapore”.
Tonini concluse il rito funebre invitando tutti a non disperdere il significato di quella “ora straordinaria, di tale intensità e consonanza di vibrazioni d’anima quale forse la nostra comunità ha conosciuto mai”.
L’Arcivescovo di Ravenna ribadì le sue convinzioni anche sul quotidiano l’Avvenire: “Qui è ora di dirci chiaramente che la strage di Ravenna non è solo un incidente sul lavoro. Dietro, o meglio alla radice, ci sta una somma smisurata di disamore, di glacialità, di sete di denaro, di disprezzo per la vita umana, di irresponsabilità. Il valore della persona s’abbassa, resta la <cosa>… Più si studia la nostra vicenda e più si viene a scoprire la vasta zona di degrado morale sconosciuto fino a ieri”.
La condanna dei sindacati
Scriveva un operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza “Le chiamano morti bianche come i lenzuoli che coprono le coscienze dei colpevoli. Le chiamano morti bianche, ma sono tragedie inaccettabili per un paese che si definisce civile. Le chiamano morti bianche, ma in realtà sono nere, non solo perché ogni morte è nera, ma perché spesso, quasi sempre, le vittime non risultano nemmeno nei libri paga dei loro padroni; padroni della loro vita. E della loro morte. Le chiamano morte bianche, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai famigliari e alle vittime del lavoro. Le chiamano morti bianche, pochi ne parlano, ma sono tragedie sottostimate nei dati ufficiali. Le chiamano morti bianche ma non lo sono mai. Sono morti rosse, come il sangue versato, morti nere come la nostra rabbia, la nostra – di tutti! – vergogna”.
La Giustizia Penale e le condanne
Il 1° settembre 1994, col secondo e ultimo pronunciamento, la Cassazione concluse l’iter della giustizia penale; 4 anni a due dei fratelli titolari del cantiere; 3 anni ai due capi Cantiere; 2 anni e 10 mesi all’Ingegnere Direttore dei lavori, 2 anni e 6 mesi ad un terzo fratello dei titolari; 1 anno e 4 mesi ai titolari di imprese appaltatrici; solo uno dei fratelli proprietari della società appaltatrice ha conosciuto alcuni mesi di prigione mentre gli altri hanno beneficiato della sospensione condizionale.
La Giustizia Civile e i rimborsi
Nel 2001, quattordici anni dopo l’evento, si concluse anche il capitolo della giustizia civile; negli anni gli imputati si erano dati molto da fare per occultare i loro patrimoni; trenta famiglie furono risarcite con somme modeste e non congrue al danno ricevuto; le somme rimborsate non sono state pubblicate dai giornali e rese note all’opinione pubblica.
La sicurezza oggi
Negli anni che seguirono ad oggi molto è stato fatto per ridurre il rischio di incidenti su lavoro. Sono state introdotte nuove norme di sicurezza specifiche per tanti settori, il recepimento di tante direttive CEE, l’obbligo delle dotazioni di sicurezza sul lavoro; dotazione di protezione individuali, corsi per la formazione dei lavoratori per l’intervento di emergenza e l’utilizzo dei dispositivi di sicurezza. È stato introdotto, il responsabile del Servizio di Prevenzione e di Protezione, ecc. ma ancora oggi troppo alto è il contributo di morti sul lavoro.
Nel 2022 nel nostro paese sono morte sul lavoro 1.091 persone, circa 3 morti al giorno; un tributo di vite umane inaccettabile; anche se molto è stato fatto ancora molto resta da fare.
Questo scritto vuole essere un modesto contributo a ricordare una tragedia che non dovremmo mai dimenticare e lavorare tutti perché non si ripeta MAI PIU’.
di Elio Cangini
Quel venerdì mattina, 13 marzo 1987, era iniziato il turno di servizio nella sede centrale dei VVF di Ravenna, così come tante altre volte. Dopo il consueto controllo dei mezzi di partenza, ogni pompiere si accingeva a svolgere i propri abituali incarichi di caserma. Io ero stato destinato ad accompagnare una scolaresca in visita alla nostra struttura per illustrare ai ragazzi: i mezzi, le attrezzature e le mansioni tipiche del lavoro di Vigile del Fuoco.
Alle 9 circa, partiva dal centralino la chiamata di soccorso per la Prima Partenza: “ Porto di Ravenna - Probabile incendio di una nave”
Per una scolaresca in visita alla caserma dei pompieri, questo è uno dei momenti più elettrizzanti, perché vedere spuntare uomini di corsa, dai vari angoli della caserma, qualcuno addirittura scendere dal palo, ed in pochi attimi trovarli tutti sul mezzo di partenza che esce a sirene spiegate, è uno spettacolo che nei ragazzi suscita sempre molto stupore ed ammirazione. Così era successo anche quella volta. La differenza in quel caso però fu che, a quella prima chiamata ne seguì a breve una successiva che mandava la seconda partenza in supporto alla prima.
Anch’io venivo staccato da quell’incontro, con gli studenti, per poter accorrere con l’autoambulanza verso il porto, dove sempre più stava delineandosi la necessità d’intervenire su un incidente a bordo di una nave con la presenza di probabili feriti. Come avviene in questo genere di sciagure le comunicazioni radio, durante il tragitto, erano piuttosto concitate e frammentarie, ma ormai si cominciava già a capire che si trattava di un episodio di una certa gravità, e si prospettava il dover andare a soccorrere alcune persone intrappolate all’interno della nave, ferma nel porto nelle aree adibite alle risistemazioni.
Arrivato sul posto ci portavamo presso la gasiera “Elisabetta Montanari”, posta all’interno del bacino di carenaggio, in zona asciutta. Nello scafo erano in corso lavori di manutenzione, quando inavvertitamente, a causa degli scarsi sistemi di sicurezza, era partito un incendio incontrollato che aveva prodotto consistenti esalazioni di fumo e gas tossici. All’interno sapevamo fossero intrappolati alcuni operai adibiti a quel pericoloso compito, il numero non era ancora noto, prima si parlava di 2 o 3, … poi di 5 o 6 … in realtà la situazione si dimostrò poi ben più tragica.
Il primo tentavo per entrare dai boccaporti era stato vano, i ventilatori posti sopra di essi ostacolavano il passaggio; inoltre, il tempo ormai trascorso dalla chiamata a quello delle operazioni in atto, lasciava presagire che per i lavoratori intrappolati nella stiva non ci fosse più alcuna possibilità di vita, in quanto oltre ai densi fumi si erano create forti esalazioni di acido cianidrico.
Fu quindi deciso di aprire, con la fiamma ossidrica, un varco su una parete dello scafo e da lì quindi penetrare all’interno.
Entrare in quell’ambiente invaso dal fumo, dove non si vedeva nulla, senza capire su cosa si stesse camminando si mostrava come sempre un compito assai arduo. Già altre volte l’avevo fatto, indossato l’autoprotettore, legato con cordino alla cintola con nodo addominale, nello stesso modo, procedevo in quella sorta di antro infernale, facendo scivolare i piedi sul pavimento, per capire se vi fossero buchi o ostacoli, col dorso della mano cercavo di tenermi vicino ad una parete per intuire il percorso fatto. In questi casi ti sembra di percorrere molta più strada di quella che in realtà stai percorrendo. Stavo facendo tutto così come mi avevano insegnato alle Scuole Antincendio ed avevo personalmente sperimentato in anni di servizio, ma questa volta capivo che era diverso. Nonostante quella sorta di corazza d’impassibilità che ogni pompiere è costretto a calzare in situazioni del genere, quello stato d’animo adrenalinico che ti permette di pensare essenzialmente a quello che stai facendo, senza lasciarti coinvolgere troppo emotivamente, andavo avanti, cercando di evitare possibilmente ogni pericolo, ma nello stesso tempo di non trascurare alcun gesto utile al soccorso; a volte ero costretto a procedere tentoni.
Purtroppo, comparvero le prime vittime, uno era ancora attaccato alla scaletta, perito nel disperato tentativo di salirvi per scappare fuori. Successivamente, io ed i miei compagni cominciammo a trovare le altre salme e portarle fuori una ad una con non poche difficoltà. Alla fine, ne contammo 13. Sul posto erano accorsi anche altri rinforzi giunti da Faenza e Forlì e ci diedero il cambio, in modo potessimo rientrare in centrale.
La fatica a cui fino a quel momento non avevamo fatto caso ci piombava addosso con la sua pesante coltre.
Non era solo fatica fisica, era anche una riconquistata consapevolezza di quanto avevamo visto e vissuto. Un tormentoso pensiero per quei poveri 13 operai e lo strazio delle loro famiglie. Per lungo tempo ogni qual volta mi capitava di trovarmi solo al buio percepivo nuovamente quei rumori, quel caldo umido ed il bisogno di ricorrere ancora a quegli strumenti utili ad ogni pompiere per vincere le difficoltà, anche psicologiche.
Oggi quando mi rivedo nelle foto di quel giorno, stento quasi a riconoscermi in quel ragazzo. Tanto tempo è passato, ma al pensiero di quel momento le emozioni riemergono ancora forti.
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A 36 ANNI DALLA TRAGEDIA DELLA MOTONAVE "ELISABETTA MONTANARI"
di Ivo Burbassi (all’epoca dei fatti Vice-Comandante)
Sono trascorsi 36 anni da quel tragico 13 Marzo 1987. L’incidente sul lavoro che causò la morte di tredici operai. Mai, in tutto il mondo, sono morte tante persone in un unico incidente sul lavoro. Erano addetti ai lavori di manutenzione di una nave gasiera, portata a secco per lavori di manutenzione nel bacino di carenaggio del porto di Ravenna.
Sono un pensionato del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Ho lavorato per 30 anni prima come Vigile e successivamente come Vice Comandante dei VV.F. di Ravenna. Quel giorno ho coordinato le squadre per l’intervento di soccorso in quella dolorosa giornata. Alcuni anni fa ho conosciuto Pierpaolo Zoffoli, giovane autore/attore dell’opera teatrale “In fondo a quella nave”. Con Pierpaolo abbiamo ricostruito, ragionato e approfondito le dinamiche dell’avvenimento e, di recente, ho assistito ad una rappresentazione della sua opera. Dagli spettatori ho percepito che, dopo tanti anni, l’avvenimento è stato quasi completamente dimenticato. Quando non è sconosciuto non solo alle giovani generazioni ma anche ai meno giovani. Ho pertanto condiviso la volontà di riproporlo per non dimenticare.
L’emozione che ho comunque riscontrato nel pubblico e che personalmente ho provato nell’assistere alla rappresentazione teatrale, mi ha fatto comprendere l’importanza di riparlare di quel tragico avvenimento. Come utile sensibilizzazione alla conoscenza delle problematiche della sicurezza sul lavoro. Tematica ancora oggi troppo spesso trascurata o dimenticata. Al caro prezzo dei tanti, troppi infortuni e decessi di cui sono piene le cronache.
La nave “Elisabetta Montanari”
La nave era adibita al trasporto di GPL (gas di petrolio liquefatto) contenuto in sei grandi serbatoi. Due collocati nella stiva lato prua, altri due nella stiva lato poppa. Due all’aperto, sul ponte della nave. I tecnici del Registro navale Italiano (RINA), nel corso di una ispezione periodica, avevano riscontrato che diverse lamiere del doppio fondo, destinato ad utilizzare l’olio combustibile per l’alimentazione dei motori, dovevano essere sostituite per l’avanzato stato di corrosione. Quindi la nave, per l’esecuzione dei lavori, era stata tirata a secco nel bacino di carenaggio del porto di Ravenna. I lavori erano stati affidati alla società Mecnavi. I doppi fondi, prima di procedere al taglio e alla sostituzione delle lamiere, dovevano essere svuotati con elettropompe dall’olio combustibile e bonificati al fine di prevenire incendi durante le operazioni di taglio e saldatura. La bonifica finale dei residui oleosi e delle morchie veniva effettuata con il recupero a mano utilizzando spugne, stracci, segatura e secchielli.
I doppi fondi, realizzati fra la chiglia della nave e il piano di calpestio della stiva, avevano una altezza variabile da 0,60 a 1,30 metri. I “passi d’uomo” fra i vari comparti, di forma ovale, erano delle dimensioni massime di cm. 40 x 50 (dimensioni ridotte al minimo per non indebolire le strutture della nave). I limitati spazi per il movimento, la presenza delle esalazioni dell’olio, la mancanza di ventilazione determinavano che i lavori di bonifica fossero particolarmente disagevoli e gravosi. Venivano quindi impiegati soprattutto giovani alla loro prima occupazione. L’accesso ai doppi fondi della stiva numero due era possibile esclusivamente attraverso una botola posta nella predetta stiva (posta sul lato poppa).
L’intervento di soccorso
La chiamata di soccorso arrivò alla centrale operativa dei VV.F. alle ore 9,08. Fu formulata come richiesta di “un generico incendio di una nave in banchina”. Partimmo immediatamente con tutte le squadre e con tutti i mezzi disponibili. Durante il percorso avvistammo una nera colonna di fumo e richiedemmo pertanto anche l’invio a supporto delle squadre dei distaccamenti di Faenza e di Lugo oltre che del Comando di Forlì. Quella mattina all’interno della stiva e nei doppi fondi erano al lavoro ventuno operai. Si trattava di sei carpentieri-saldatori, per il taglio, la sostituzione e la saldatura delle lamiere dello scafo ammalorate. Operavano poi dodici “picchettini” dotati di martelline a punta e secchi per la rimozione e la raccolta delle croste di ossido di ferro oltre a tre giovani ragazzi addetti al ricupero dell’olio combustibile residuo dai doppi fondi.
Al nostro arrivo nel cantiere procedemmo ad una rapida ricognizione. Immediatamente dopo, ricevute indicazioni dall’Ingegnere Direttore dei Lavori, io e una squadra ci recammo sul fondo del bacino, sotto la chiglia della nave. Qui ci indicarono e udimmo chiaramente dei colpi contro le lamiere provenire dall’interno della nave. Erano originati da alcuni operai che, intrappolati nei doppi fondi, chiedevano aiuto. Rispondemmo con altrettanti colpi dall’esterno nell’intento di confermargli la nostra presenza e per assicurare loro il nostro intervento per aprirgli un varco. Da subito, con l’ausilio di una fiamma ossidrica, iniziammo il taglio delle lamiere allo scopo di realizzare un’apertura per raggiungere gli operai. L’operazione si presentava comunque particolarmente rischiosa per il possibile innesco di un ulteriore incendio all’interno dei doppi fondi. Affrontammo inevitabilmente il rischio, non esistendo altre possibili alternative per raggiungere i lavoratori che chiedevano aiuto.
Una seconda squadra, con l’ausilio degli autorespiratori, cercò di portare soccorso ai lavoratori bloccati nei doppi fondi. Tentò di raggiungere il passo d’uomo a poppa della stiva attraverso uno stretto corridoio esistente fra i due serbatoi. Tentativo che risultò impossibile per le fiamme e le alte temperature presenti nella stiva stessa.
Una terza squadra iniziò le operazioni di contenimento dell’incendio con getti di schiuma e poi di acqua per il raffreddamento attraverso l’apertura esistente sul fondo della stiva oltre che dai boccaporti presenti sul ponte della nave. L’attacco all’incendio fu purtroppo rallentato dalla necessità di approvvigionarsi di acqua dal porto canale con le pompe della motobarca VV.F. giunta sul posto e non dagli idranti presenti nel bacino di carenaggio Inutilizzabili, in quanto l’impianto fisso antincendio era inattivo da diversi mesi.
Durante le operazioni di taglio delle lamiere non udimmo più provenire dall’interno della stiva le richieste di aiuto. Quando, dopo aver aperto il varco, due vigili raggiunsero finalmente l’interno del doppio fondo, capimmo con grande frustrazione, che purtroppo il nostro tentativo di portare soccorso era fallito. Da quel varco infatti, con enormi difficoltà e dopo tante manovre, i vigili riuscirono a portare all’aperto tre corpi, privi di vita, dei ragazzi addetti alla pulizia dei doppi fondi.
Dei ventuno operai al lavoro, sei carpentieri-saldatori e due picchettini che lavoravano sul piano della stiva si portarono all’esterno in autonomia utilizzando l’unica grande apertura realizzata sul piano della stiva (verso prua della nave).
In seguito, dopo aver circoscritto e poi spento l’incendio, continuammo l’opera di raffreddamento delle lamiere della stiva e dei serbatoi. Demmo inizio anche all’aspirazione dei fumi con l’ausilio dei motoventilatori. Ma solo dopo le 11,30 fu possibile accedere alla stiva. Avviammo così l’ispezione di tutti i luoghi accessibili e il tragico recupero dei corpi. Il drammatico bilancio non fu di uno o due persone, come ci era stato inizialmente segnalato, ma di 13 corpi senza vita.
L’ultimo corpo ritrovato e portato all’esterno fu quello di Vincenzo Padua. Era il più anziano, a pochi mesi dalla pensione. Unico dipendente Mecnavi, che lavorava nella stiva come picchettino. Lo ritrovammo appoggiato con la schiena al fianco della nave; con il secchio in mezzo alle gambe e con la testa reclinata sul petto. Praticamente non si era mosso dalla propria posizione di lavoro.
Dall’esame dei corpi i medici accertarono che la morte non era avvenuta per le ustioni, né per le alte temperature, ma per l’inalazione dei fumi. I miasmi tossici emessi dalla combustione del poliuretano espanso e della banda catramata che avvolgeva, per l’isolamento termico, i due grandi serbatoi della stiva. I fumi generati dall’incendio erano composti dall’ossido di carbonio e soprattutto da vapori di acido cianidrico. Vapori originati dalla combustione del poliuretano che, se inalati, portano alla perdita di conoscenza entro 10-15 minuti e alla morte per asfissia in 30-40 minuti.
Nel tardo pomeriggio terminammo tutte le operazioni connesse all’intervento oltre alla illustrazione alle autorità dei luoghi e della dinamica dell’evento. Rientrai a casa e tentai di raccontare l’accaduto a mia moglie e ai figli. Non vi riuscii in quanto profondamente commosso e turbato. Mi appoggiai con un braccio e con la testa allo stipite di una porta e scaricai tutta la tensione accumulata nelle ore dell’intervento. Con la consapevolezza dell’inefficacia del nostro lavoro, non essendo riusciti a mettere in salvo nessuno degli operai. Con stampata nella mente la visione straziante dei volti dei poveri corpi sporchi di morchie e di olio. Morti solo perché spinti dalla necessità di avere un lavoro. Scaricai la tensione di quella terribile giornata in un lungo pianto come non avevo mai fatto e, ora posso dirlo, come non ho fatto mai più successivamente.
Evento catastrofico altamente probabile
Dalla perizia di 252 pagine redatta dal Collegio dei Periti della Commissione d’inchiesta consegnata alla Procura di Ravenna l’incidente veniva descritto come “un evento catastrofico altamente probabile” originato da una serie di cause che qui riassumo;
• indisponibilità di estintori e indisponibilità dell’impianto idrico antincendio. Fu infatti accertato che l’operaio saldatore che innescò accidentalmente una chiazza di olio combustibile presente sul piano della stiva tentò di spegnere il principio d’incendio, senza successo. Utilizzando i guanti da lavoro e stracci non avendo alcun estintore a disposizione. In un secondo momento alcuni operai stesero la tubazione di un idrante installato nel bacino di carenaggio ma le pompe dell’impianto erano inattive da parecchi giorni per una perdita nella rete e non uscì neanche una goccia d’acqua. Vorrei qui ricordare un proverbio cinese che recita; “per spegnere un incendio subito basta un bicchiere d’acqua (estintore), dopo un po’ ne occorre un secchio (idrante) e dopo... si fa quel che si può” (il nostro intervento). È spaventoso dover ammettere che se fossero stati presenti uno o due estintori e se l’idrante avesse erogato acqua quelle tredici vite sarebbero ancora fra noi.
• carenza o inefficienza dell’impianto di aerazione-ventilazione, di illuminazione d’emergenza e di allarme per l’emergenza. Nella stiva erano presenti i fumi delle saldature e del taglio delle lamiere. La mancanza di illuminazione e di un sistema di allarme non permise all’operaio di vedere la chiazza di olio che innescò l’incendio e successivamente di allarmare prontamente tutti gli altri operai al lavoro nella stiva. La mancanza di un impianto di ventilazione-aerazione per lo smaltimento dei fumi non rese possibile comprendere immediatamente che si era sviluppato un incendio. Infatti nessuna delle dieci persone al lavoro, ai vari livelli della stiva, fu in grado di mettersi in sicurezza autonomamente sia per il mancato allarme, sia per l’impossibilità di distinguere i fumi dell’incendio dagli altri fumi presenti nell’ambiente.
• mancanza per gli operai al lavoro nei doppi fondi di una seconda via d’uscita. Per ottenere la seconda via d’uscita era necessario aprire un varco sul fianco della nave. L’opera, richiesta dalla direzione Lavori, non era stata effettuata per l’opposizione dei titolari del cantiere. Rifiuto motivato dalla “necessità” di contenere i costi e i tempi di realizzazione. Conseguentemente l’unica via possibile che i tre operai avrebbero potuto percorrere per mettersi in salvo era costituita dallo stretto corridoio. Corridoio che venne invaso dal calore e dalle fiamme generati dall’incendio del rivestimento dei due serbatoi;
• assenza di personale qualificato e addestrato per affrontare un principio d’incendio (guardie fuoco, addetti alla sicurezza del cantiere, ecc.);
• inesperienza e bassa qualificazione di quasi tutto il personale addetto ai lavori (saldatori senza patentino, direttore dei lavori non qualificato, capi cantiere non autonomi ma asserviti alle volontà dei titolari);
• inadeguatezza della capacità di deflusso delle vie di fuga e inesistenza di uscite di sicurezza alternative ovvero che da ogni punto della nave fosse possibile in caso d’emergenza, scegliere e praticare una via d’uscita sicura per raggiungere l’esterno della nave.
In sintesi, le principali cause, all’origine del tragico evento, possono essere così riassunte:
• nessun provvedimento di prevenzione dagli incendi per lavori con fiamma (taglio e saldatura dei metalli) in ambiente con elevato rischio d’incendio;
• nessuna protezione dal rischio d’incendio per la mancanza di estintori e/o di idranti per l’estinzione;
• nessuna sicurezza strutturale della nave determinata dalla presenza di coibentazioni dei serbatoi esposte ad un elevato rischio d’incendio in occasione di lavori di manutenzione con fiamme libere.
Uomini ridotti a topi
Voglio riproporre, perché piene di significato, una parte delle parole pronunciate da Monsignor Tonini, Vescovo di Ravenna. Già la sera prima dei funerali nell’intervista rilasciata alla RAI, non usò mezzi termini “Mi viene la voglia di urlare, di gridare, anche se quando avrò davanti a me in Duomo quelle povere salme dovrò contenermi. Ma certe cose dovrò dirle. Come è possibile, in questo momento in cui le tecnologie sostituiscono l’uomo nelle funzioni più complesse, che non si trovino per risparmiare alle creature umane il degrado, i lavori umilianti, la morte”.
Nella sua omelia del 16 marzo Monsignor Tonini seppe colpire al cuore con parole indimenticabili; “Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto; No, figlio mio. Meglio povero, ma con noi. Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare dieci ore in cunicoli dove – posso dire la parola? Non vorrei scandalizzare – dove possono camminare e vivere solo i topi! Uomini e topi! Parola dura, detta da un Vescovo all’altare; eppure deve essere detta, perché mai gli uomini possono essere ridotti a topi… Non è vero che il mondo del lavoro è ormai del tutto in ordine. Proprio lì si svelano ora zone di sofferenza estrema e autentica disumanità… I primi a farne le spese risultano essere i giovani, posti di fronte al ricatto: o trascinarsi a una disoccupazione logorante, spregevoli a sé e agli altri, o mostrarsi disponibili a tutto, al lavoro nero, alle prestazioni più umilianti, al rischio di morire come topi in trappola”.
Era intenzione del monsignore suscitare un allarme più generale: “da Ravenna, dalla stiva di quella nave si leva una denuncia; l’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più pregiati, il rispetto mutuo, la pietà, la solidarietà, in una parola; la capacità di amare… Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine fra il bene e il male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quella attenzione all’onestà che gli stessi atei della nostra Romagna hanno conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli.”
Sull’infinito strazio dei genitori la voce si fece più cupa, avendo constatato “che cosa accade nei genitori quando gli uccidono un figlio; da allora il sole non è più sole, il cielo non è più cielo, il bianco non è più bianco, niente ha più sapore”.
Tonini concluse il rito funebre invitando tutti a non disperdere il significato di quella “ora straordinaria, di tale intensità e consonanza di vibrazioni d’anima quale forse la nostra comunità ha conosciuto mai”.
L’Arcivescovo di Ravenna ribadì le sue convinzioni anche sul quotidiano l’Avvenire: “Qui è ora di dirci chiaramente che la strage di Ravenna non è solo un incidente sul lavoro. Dietro, o meglio alla radice, ci sta una somma smisurata di disamore, di glacialità, di sete di denaro, di disprezzo per la vita umana, di irresponsabilità. Il valore della persona s’abbassa, resta la <cosa>… Più si studia la nostra vicenda e più si viene a scoprire la vasta zona di degrado morale sconosciuto fino a ieri”.
La condanna dei sindacati
Scriveva un operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza “Le chiamano morti bianche come i lenzuoli che coprono le coscienze dei colpevoli. Le chiamano morti bianche, ma sono tragedie inaccettabili per un paese che si definisce civile. Le chiamano morti bianche, ma in realtà sono nere, non solo perché ogni morte è nera, ma perché spesso, quasi sempre, le vittime non risultano nemmeno nei libri paga dei loro padroni; padroni della loro vita. E della loro morte. Le chiamano morte bianche, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai famigliari e alle vittime del lavoro. Le chiamano morti bianche, pochi ne parlano, ma sono tragedie sottostimate nei dati ufficiali. Le chiamano morti bianche ma non lo sono mai. Sono morti rosse, come il sangue versato, morti nere come la nostra rabbia, la nostra – di tutti! – vergogna”.
La Giustizia Penale e le condanne
Il 1° settembre 1994, col secondo e ultimo pronunciamento, la Cassazione concluse l’iter della giustizia penale; 4 anni a due dei fratelli titolari del cantiere; 3 anni ai due capi Cantiere; 2 anni e 10 mesi all’Ingegnere Direttore dei lavori, 2 anni e 6 mesi ad un terzo fratello dei titolari; 1 anno e 4 mesi ai titolari di imprese appaltatrici; solo uno dei fratelli proprietari della società appaltatrice ha conosciuto alcuni mesi di prigione mentre gli altri hanno beneficiato della sospensione condizionale.
La Giustizia Civile e i rimborsi
Nel 2001, quattordici anni dopo l’evento, si concluse anche il capitolo della giustizia civile; negli anni gli imputati si erano dati molto da fare per occultare i loro patrimoni; trenta famiglie furono risarcite con somme modeste e non congrue al danno ricevuto; le somme rimborsate non sono state pubblicate dai giornali e rese note all’opinione pubblica.
La sicurezza oggi
Negli anni che seguirono ad oggi molto è stato fatto per ridurre il rischio di incidenti su lavoro. Sono state introdotte nuove norme di sicurezza specifiche per tanti settori, il recepimento di tante direttive CEE, l’obbligo delle dotazioni di sicurezza sul lavoro; dotazione di protezione individuali, corsi per la formazione dei lavoratori per l’intervento di emergenza e l’utilizzo dei dispositivi di sicurezza. È stato introdotto, il responsabile del Servizio di Prevenzione e di Protezione, ecc. ma ancora oggi troppo alto è il contributo di morti sul lavoro.
Nel 2022 nel nostro paese sono morte sul lavoro 1.091 persone, circa 3 morti al giorno; un tributo di vite umane inaccettabile; anche se molto è stato fatto ancora molto resta da fare.
Questo scritto vuole essere un modesto contributo a ricordare una tragedia che non dovremmo mai dimenticare e lavorare tutti perché non si ripeta MAI PIU’.