La tragedia della Moby Prince.
IL MIO VISSUTO DI QUELLA TERRIBILE ESPERIENZA PROFESSIONALE E PERSONALE
di Fabrizio Graverini*
A distanza di oltre trent’anni da quell’evento, ho ancora dei ricordi vivi e incancellabili, nonostante il tempo trascorso e l’accumulo di esperienze che hanno, come per tutti i vigili del fuoco, segnato la mia carriera, ma anche lo spirito più profondo della mia persona.
Il 12 aprile 1991 ero ancora vigile; quel giorno ero di prima partenza presso la Sede Centrale del Comando Provinciale di Pisa.
La sera prima fummo avvertiti dal Comando del fatto che la mattina seguente saremmo dovuti intervenire per fornire un supporto operativo ai colleghi del Comando di Livorno, per operare sul traghetto Moby Prince.
Dal Comando ci informarono anche della necessità di recarci in sede con largo anticipo rispetto al normale orario di servizio, in maniera da essere puntuali presso la banchina di ormeggio del porto di Livorno per le 8.00 del mattino.
Le informazioni della tragedia e le immagini erano già state ampiamente trasmesse dai media, dando l’idea del disastro che si era consumato davanti alle nostre coste. Per questo avevo già una vaga idea di quello che avremmo trovato. Un’idea che si rivelò fallace per la drammaticità della situazione riscontrata, ampiamente al di sopra di quello che avevo provato ad immaginarmi.
Sul mezzo che ci portava a Livorno, durante i 25 chilometri circa che ci separavano dalla banchina dove eravamo diretti, si percepiva una grande determinazione tra tutti noi, ma al contempo una grande preoccupazione, perché nessuno di noi aveva esperienze pregresse di interventi a bordo di navi, in questo caso una nave passeggeri. Tutti eravamo consci del fatto che una persona non abituata a viaggiare su grandi navi, ha delle difficoltà a muoversi e ad orientarsi in quegli ambienti non facili da memorizzare, difficoltà che diventano enormi nell’emergenza, amplificate poi anche dalle mille insidie che si creano a causa di un incendio.
Così ognuno commentava le immagini dei notiziari cercando di capire le motivazioni di quanto era accaduto e cercando di immaginare quello che da li a poco avremmo dovuto affrontare.
Non ci volle molto per percorrere quei pochi chilometri che separavano Pisa da Livorno. Arrivammo in orario perché trovammo la strada poco trafficata.
Man mano che ci avvicinavamo al porto l’angoscia montava sempre più; cresceva di minuto in minuto, diventando un grande e insostenibile peso alla bocca dello stomaco. Nessuno di noi parlava più. La loquacità iniziale, frutto anche della tensione che andava scaricata, si trasformò in un silenzio cupo e gravido di pensieri.
La nave si parò davanti ai nostri occhi.
Era un enorme ammasso di ferraglia fumante, ed era attraccata presso la Darsena Petroli del porto industriale di Livorno; si presentava come un gigante ferito, inclinato a causa della grande quantità di acqua erogata dai rimorchiatori e dalle altre unità antincendio intervenute per l’opera di spegnimento in mare.
Fortunatamente essendo una zona con accesso limitato del porto erano presenti solo gli addetti ai lavori e non la massa di curiosi che normalmente si assiepa nelle vicinanze dei luoghi dove avvengono gli interventi più rilevanti.
Dopo alcune brevi informazioni ricevute dai Funzionari del Comando di Livorno, apparve chiaro che la nostra missione era quella di ricercare e recuperare i corpi dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio che si trovavano ancora a bordo, si trattava di 131 persone delle 140 inizialmente presenti, in quanto nove di queste erano state recuperate nel pomeriggio del giorno prima dai colleghi di Livorno.
La Polizia scientifica, che al momento era impossibilitata a salire a bordo date le condizioni di assenza di sicurezza, ci informò sulla necessità di numerare i corpi all’atto del recupero e di inserire nelle body bags, anche eventuali parti ritenute appartenenti ai corpi stessi, oltre ad eventuali beni personali, come borse, indumenti, monili e altri effetti rinvenuti nelle immediate vicinanze dei corpi, attraverso i quali sarebbe stato possibile agevolare l’opera di riconoscimento delle salme, oltre ad indicare la posizione del loro ritrovamento.
Diverse altre squadre arrivarono dai Comandi della Toscana; vennero suddivise per le varie aree della nave, partendo dall’unico punto di accesso possibile che era rappresentato dalla scala aerea posta più o meno centralmente rispetto alla fiancata della nave. I normali accessi erano inutilizzabili.
A bordo, nonostante fossero trascorse diverse ore, le lamiere contorte dal calore erano ancora caldissime, e anche percorrendo le parti esterne, i fumi acri e ancora densi creavano disagio alla respirazione.
La nave era bruciata completamente ed era presente una traccia di vernice solo in parte nella zona dei fumaioli, le scialuppe di salvataggio erano completamente bruciate e gli oblò rotti per il calore. Non era possibile l’ispezione dei luoghi chiusi perché l’annerimento causato dall’incendio, la densità del fumo delle parti ancora in combustione e il vapore acqueo causato dall’evaporazione dell’acqua sulle lamiere, creavano una cortina ancora impenetrabile.
Un vero effetto schermo che peggiorava con l’uso delle torce e rendeva inefficace anche l’uso degli autorespiratori che tutti noi dovevamo indossare per la ricerca dei corpi all’interno dei locali.
In attesa della predisposizione degli estrattori di fumo, incominciammo ad ispezionare i punti più accessibili della zona a noi assegnata. Avevamo bisogno di acquisire la necessaria famigliarità con quegli ambienti sfavorevoli e difficili da percorrere. Venivano trovate alcune vittime bruciate che non essendo state raggiunte dai getti di acqua, stavano ancora orribilmente fumando; la prima immagine fu quella di una persona, priva di salvagente, probabilmente un marinaio, che nell’impossibilità di gettarsi in acqua, perché’ la superfice del mare era in fiamme, aveva provato a discendere da una scala verso le cabine, nell’estremo tentativo di sfuggire alle fiamme. Infatti fu trovato posizionato in direzione discendente e non rivolto verso l’uscita, come sarebbe stato naturale.
Quella prima immagine oltre a lasciarci sgomenti, ci lasciò intendere quale enorme tragedia avessero vissuto i presenti a bordo della nave e cosa ci saremmo dovuti aspettare.
Piazzato un estrattore di fumo nei pressi della porta di accesso di un salone di cui non ricordo il nome, i fumi cominciarono a diradarsi e potevamo finalmente scorgere la luce esterna che a fatica cominciava a filtrare nel buio del salone, attraverso gli oblò privi di vetri poiché distrutti per il calore.
L’immagine fu indimenticabile, tutta la parte di rivestimento e il controsoffitto erano crollati per il calore, mescolandosi ai corpi che risultavano non facilmente riconoscibili perché completamente bruciati anche loro.
Più il fumo si diradava e più si poteva notare che l’intero salone era cosparso di corpi e macerie. Era stato terribile.
Le immagini di quella distruzione e di quei poveri corpi con indossati i salvagenti nella speranza di poter sfuggire da quell’inferno, ti graffiava l’anima costringendoti a mettere in dubbio qualsiasi credenza.
L’acqua di spegnimento penetrata dagli oblò rotti e l’inclinazione della nave aveva ammassato parte dei corpi e molto materiale combusto sul lato destro del salone, il lato che guardava la banchina.
Non essendo possibile il recupero in quelle condizioni, fu deciso di aprire il portellone laterale di abbandono della nave, per fare defluire l’acqua e procedere quindi al recupero di quella massa informe di corpi.
Quel giorno apponemmo il numero 46 all’ultima vittima recuperata, le operazioni sarebbero proseguite il giorno seguente. Noi non potevamo proseguire oltre. Eravamo distrutti non solo fisicamente, ma soprattutto nel profondo dell’animo.
La realtà aveva superato quello che avevamo immaginato, nessuno aveva la forza di commentare; le parole erano tese solo al compimento della nostra pietosa opera di recupero.
Ci muovevamo come degli automi, mossi solo dal profondo dovere istituzionale e da una grandissima pietà che saliva sino in gola dal più profondo del cuore.
Resistevamo per non versare lacrime perché il sangue freddo doveva prevalere e avere la meglio sui nostri sentimenti. Sapevamo però che al rientro nelle nostre case e tra le nostre famiglie la rielaborazione di quei momenti sarebbe stata difficile e dolorosa.
Ci consolava il fatto comunque che avremmo trovato qualcuno che avrebbe ascoltato e condiviso le nostre angosce lenendo, seppur di poco, la nostra sofferenza interiore.
Per me quello fu l’intervento che professionalmente mi cambiò per sempre. Da quel giorno mi sono adoperato e battuto affinché fosse inserito nell’organizzazione del Corpo Nazionale un servizio di supporto psicologico, perché nessuno di noi può essere lasciato solo nell’elaborazione di una tragedia simile.
*Vigile del Fuoco all'epoca dei fatti
di Fabrizio Graverini*
A distanza di oltre trent’anni da quell’evento, ho ancora dei ricordi vivi e incancellabili, nonostante il tempo trascorso e l’accumulo di esperienze che hanno, come per tutti i vigili del fuoco, segnato la mia carriera, ma anche lo spirito più profondo della mia persona.
Il 12 aprile 1991 ero ancora vigile; quel giorno ero di prima partenza presso la Sede Centrale del Comando Provinciale di Pisa.
La sera prima fummo avvertiti dal Comando del fatto che la mattina seguente saremmo dovuti intervenire per fornire un supporto operativo ai colleghi del Comando di Livorno, per operare sul traghetto Moby Prince.
Dal Comando ci informarono anche della necessità di recarci in sede con largo anticipo rispetto al normale orario di servizio, in maniera da essere puntuali presso la banchina di ormeggio del porto di Livorno per le 8.00 del mattino.
Le informazioni della tragedia e le immagini erano già state ampiamente trasmesse dai media, dando l’idea del disastro che si era consumato davanti alle nostre coste. Per questo avevo già una vaga idea di quello che avremmo trovato. Un’idea che si rivelò fallace per la drammaticità della situazione riscontrata, ampiamente al di sopra di quello che avevo provato ad immaginarmi.
Sul mezzo che ci portava a Livorno, durante i 25 chilometri circa che ci separavano dalla banchina dove eravamo diretti, si percepiva una grande determinazione tra tutti noi, ma al contempo una grande preoccupazione, perché nessuno di noi aveva esperienze pregresse di interventi a bordo di navi, in questo caso una nave passeggeri. Tutti eravamo consci del fatto che una persona non abituata a viaggiare su grandi navi, ha delle difficoltà a muoversi e ad orientarsi in quegli ambienti non facili da memorizzare, difficoltà che diventano enormi nell’emergenza, amplificate poi anche dalle mille insidie che si creano a causa di un incendio.
Così ognuno commentava le immagini dei notiziari cercando di capire le motivazioni di quanto era accaduto e cercando di immaginare quello che da li a poco avremmo dovuto affrontare.
Non ci volle molto per percorrere quei pochi chilometri che separavano Pisa da Livorno. Arrivammo in orario perché trovammo la strada poco trafficata.
Man mano che ci avvicinavamo al porto l’angoscia montava sempre più; cresceva di minuto in minuto, diventando un grande e insostenibile peso alla bocca dello stomaco. Nessuno di noi parlava più. La loquacità iniziale, frutto anche della tensione che andava scaricata, si trasformò in un silenzio cupo e gravido di pensieri.
La nave si parò davanti ai nostri occhi.
Era un enorme ammasso di ferraglia fumante, ed era attraccata presso la Darsena Petroli del porto industriale di Livorno; si presentava come un gigante ferito, inclinato a causa della grande quantità di acqua erogata dai rimorchiatori e dalle altre unità antincendio intervenute per l’opera di spegnimento in mare.
Fortunatamente essendo una zona con accesso limitato del porto erano presenti solo gli addetti ai lavori e non la massa di curiosi che normalmente si assiepa nelle vicinanze dei luoghi dove avvengono gli interventi più rilevanti.
Dopo alcune brevi informazioni ricevute dai Funzionari del Comando di Livorno, apparve chiaro che la nostra missione era quella di ricercare e recuperare i corpi dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio che si trovavano ancora a bordo, si trattava di 131 persone delle 140 inizialmente presenti, in quanto nove di queste erano state recuperate nel pomeriggio del giorno prima dai colleghi di Livorno.
La Polizia scientifica, che al momento era impossibilitata a salire a bordo date le condizioni di assenza di sicurezza, ci informò sulla necessità di numerare i corpi all’atto del recupero e di inserire nelle body bags, anche eventuali parti ritenute appartenenti ai corpi stessi, oltre ad eventuali beni personali, come borse, indumenti, monili e altri effetti rinvenuti nelle immediate vicinanze dei corpi, attraverso i quali sarebbe stato possibile agevolare l’opera di riconoscimento delle salme, oltre ad indicare la posizione del loro ritrovamento.
Diverse altre squadre arrivarono dai Comandi della Toscana; vennero suddivise per le varie aree della nave, partendo dall’unico punto di accesso possibile che era rappresentato dalla scala aerea posta più o meno centralmente rispetto alla fiancata della nave. I normali accessi erano inutilizzabili.
A bordo, nonostante fossero trascorse diverse ore, le lamiere contorte dal calore erano ancora caldissime, e anche percorrendo le parti esterne, i fumi acri e ancora densi creavano disagio alla respirazione.
La nave era bruciata completamente ed era presente una traccia di vernice solo in parte nella zona dei fumaioli, le scialuppe di salvataggio erano completamente bruciate e gli oblò rotti per il calore. Non era possibile l’ispezione dei luoghi chiusi perché l’annerimento causato dall’incendio, la densità del fumo delle parti ancora in combustione e il vapore acqueo causato dall’evaporazione dell’acqua sulle lamiere, creavano una cortina ancora impenetrabile.
Un vero effetto schermo che peggiorava con l’uso delle torce e rendeva inefficace anche l’uso degli autorespiratori che tutti noi dovevamo indossare per la ricerca dei corpi all’interno dei locali.
In attesa della predisposizione degli estrattori di fumo, incominciammo ad ispezionare i punti più accessibili della zona a noi assegnata. Avevamo bisogno di acquisire la necessaria famigliarità con quegli ambienti sfavorevoli e difficili da percorrere. Venivano trovate alcune vittime bruciate che non essendo state raggiunte dai getti di acqua, stavano ancora orribilmente fumando; la prima immagine fu quella di una persona, priva di salvagente, probabilmente un marinaio, che nell’impossibilità di gettarsi in acqua, perché’ la superfice del mare era in fiamme, aveva provato a discendere da una scala verso le cabine, nell’estremo tentativo di sfuggire alle fiamme. Infatti fu trovato posizionato in direzione discendente e non rivolto verso l’uscita, come sarebbe stato naturale.
Quella prima immagine oltre a lasciarci sgomenti, ci lasciò intendere quale enorme tragedia avessero vissuto i presenti a bordo della nave e cosa ci saremmo dovuti aspettare.
Piazzato un estrattore di fumo nei pressi della porta di accesso di un salone di cui non ricordo il nome, i fumi cominciarono a diradarsi e potevamo finalmente scorgere la luce esterna che a fatica cominciava a filtrare nel buio del salone, attraverso gli oblò privi di vetri poiché distrutti per il calore.
L’immagine fu indimenticabile, tutta la parte di rivestimento e il controsoffitto erano crollati per il calore, mescolandosi ai corpi che risultavano non facilmente riconoscibili perché completamente bruciati anche loro.
Più il fumo si diradava e più si poteva notare che l’intero salone era cosparso di corpi e macerie. Era stato terribile.
Le immagini di quella distruzione e di quei poveri corpi con indossati i salvagenti nella speranza di poter sfuggire da quell’inferno, ti graffiava l’anima costringendoti a mettere in dubbio qualsiasi credenza.
L’acqua di spegnimento penetrata dagli oblò rotti e l’inclinazione della nave aveva ammassato parte dei corpi e molto materiale combusto sul lato destro del salone, il lato che guardava la banchina.
Non essendo possibile il recupero in quelle condizioni, fu deciso di aprire il portellone laterale di abbandono della nave, per fare defluire l’acqua e procedere quindi al recupero di quella massa informe di corpi.
Quel giorno apponemmo il numero 46 all’ultima vittima recuperata, le operazioni sarebbero proseguite il giorno seguente. Noi non potevamo proseguire oltre. Eravamo distrutti non solo fisicamente, ma soprattutto nel profondo dell’animo.
La realtà aveva superato quello che avevamo immaginato, nessuno aveva la forza di commentare; le parole erano tese solo al compimento della nostra pietosa opera di recupero.
Ci muovevamo come degli automi, mossi solo dal profondo dovere istituzionale e da una grandissima pietà che saliva sino in gola dal più profondo del cuore.
Resistevamo per non versare lacrime perché il sangue freddo doveva prevalere e avere la meglio sui nostri sentimenti. Sapevamo però che al rientro nelle nostre case e tra le nostre famiglie la rielaborazione di quei momenti sarebbe stata difficile e dolorosa.
Ci consolava il fatto comunque che avremmo trovato qualcuno che avrebbe ascoltato e condiviso le nostre angosce lenendo, seppur di poco, la nostra sofferenza interiore.
Per me quello fu l’intervento che professionalmente mi cambiò per sempre. Da quel giorno mi sono adoperato e battuto affinché fosse inserito nell’organizzazione del Corpo Nazionale un servizio di supporto psicologico, perché nessuno di noi può essere lasciato solo nell’elaborazione di una tragedia simile.
*Vigile del Fuoco all'epoca dei fatti
10 APRILE 1991
IL DISASTRO NAVALE NELLA RADA DEL PORTO DI LIVORNO. LA COLLISIONE M/T MOBY PRINCE-M/C AGIP ABRUZZO
di Fabrizio Ceccherini*
ANTEFATTO
La M/C Agip Abruzzo raggiunge la rada del Porto di Livorno, proveniente dall’Egitto, alle ore 22.25 del 09.04.1991 con un carico di 80.078 ton. di greggio “Iranian Light”, caricato presso il porto di Sidi Kerir e destinato alla raffineria di Agip di Stagno.
Il M/T Moby Prince (Soc. Navarma) giunge al Porto di Livorno, proveniente da Olbia, alle ore 18.35 del 09.04.1991.
LE NAVI COINVOLTE
M/T Moby Prince
Comandante Ugo Chessa, Primo Ufficiale Giuseppe Sciacca, Timoniere Aniello Padula.
Equipaggio: totale 65 unità.
Passeggeri: 76 unità.
Automezzi trasportati: 31.
Anno di costruzione: 1967
Cantiere: Birkenhead (BG) – Cammel e Laird
Nome originario: Koningin Juliana
Lunghezza: 116,48 mt.
Larghezza: 19,98 mt.
Altezza ponte principale: 7,19 mt.
Altezza Plancia comando: 15 mt.
Stazza lorda: 6.187,41 ton.
Velocità: 22 nodi
Diametro di evoluzione: 430 mt.
M/C Agip Abruzzo
Comandante: Renato Superina
Equipaggio: totale 30 unità.
Anno di costruzione: 1976 (dejumbizzata nel 1987)
Cantiere: Ital Cantieri Trieste
Lunghezza: 286 mt.
Larghezza: 52 mt.
Altezza ponte principale: 26,6 mt.
Stazza lorda: 98.950 ton.
Capacità cisterne di carico: 184.942 mc.
Immersione alla marca stiva:19,51 mt.
POSIZIONE NAVI IN RADA
Punto di fonda M/C Agip Abruzzo 43°29.7’ N – 010°16’ E (rilevati dal comandante Superina “in plancia”);
Orientamento prua: ~ 300° (N.O.);
Altre navi presenti in rada, nella zona della collisione la sera del 10 aprile 1991 Cape Breton e Gallant, navi militarizzate USA di rientro dalla Guerra del Golfo.
Rotta Moby Prince 191° ÷ 192° passando a 150 ÷ 200 m. dalla diga della Vegliaia 200° ÷ 205° fino alla Cape Breton 191° ÷ 192° direzione Olbia
Velocità di impatto: 20 nodi
Angolo di impatto (prua – poppa): 65° ÷ 70°
Punto di impatto: a 63 m. dalla poppa della M/C Agip Abruzzo.
CONDIZIONI METEOROLOGICHE AL MOMENTO DELL’INCIDENTE
(Da rilevamento Cape Breton)
Temperatura aria: 14,4°
Temperatura acqua: 13,3°
Punto di rugiada: 13,9°
Vento: 2 ÷ 3 nodi da NW
Umidità relaLva: 80,6 % Pressione barica: 1.025 mbar
CRONOLOGIA DELL’INCIDENTE
Ore 21.55 del 10 aprile 1991
Il pilota di servizio SGHERRI sale sul ponte del Moby Prince a banchina all’accosto 55 – Calata Carrara del porto di Livorno;
Ore 22.03
Il traghetto Moby Prince molla gli ormeggi diretto ad Olbia;
Ore 22.10
Il traghetto raggiunge l’imboccatura del porto, il pilota SGHERRI sbarca;
Ore 22.14
Il traghetto passa al traverso della testata di ponente della Diga della Vegliaia;
Ore 22.25
All’esterno del Porto, avviene la collisione tra il traghe/o Moby Prince e la M/C Agip Abruzzo che era ferma e stabilmente ancorata alla fonda nella rada del Porto di Livorno;
Ore 22.25.34”
Il traghetto lancia il “May Day” via rado sul canale 16 di soccorso (“May-day May-day May-day! Moby Prince siamo in collisione…” “siamo in collisione prendiamo fuoco…siamo entrati in collisione prendiamo fuoco!”
Il messaggio non viene percepito dalle stazioni in ascolto sul canale di soccorso (Compmare – Livorno Radio), causa debolezza del segnale e sovrapposizione con altre comunicazioni);
Ore 22.26.09”
La M/C Agip Abruzzo segnala di aver subito uno speronamento e il Comandante Renato Superina lancia, sul canale 16 marino, la richiesta di aiuto per un incendio sviluppatosi a bordo. Alla richiesta di spiegazioni da parte della Capitaneria di Porto aggiunge che l’incendio si è sviluppato a seguito dello speronamento da parte di una nave, identificandola per una non meglio definita “bettolina” (nave cisterna di medie dimensioni utilizzata per l’effettuazione di operazioni di “allibo” su navi il cui pescaggio, superiore alla profondità del fondale nel punto di arrivo, non ne consente l’ingresso nel porto a pieno carico).
La Capitaneria di Porto, alle 22.35, attiva tutti i soccorsi disponibili; la squadra nautica dei Vigili del Fuoco, di stanza al Distaccamento Porto, molla gli ormeggi alle 22.36 partiva a bordo della Motobarca pompa VF 446 alla volta del luogo dell’incidente segnalato dalla Petroliera Agip Abruzzi.
Nel frattempo si reca presso il molo Capitaneria la prima squadra della Sede Centrale di Livorno per essere imbarcata su un’altra motovedetta CP diretta sul luogo del sinistro. Oltre al mezzo nautico VF ed alla motovedetta della Capitaneria di Porto CP 232, si attivano i rimorchiatori del porto (n° 2 imbarcazioni – Tito Neri 7° e Tito Neri 9°).
Al momento non si hanno notizie della seconda nave coinvolta (la presunta “bettolina”) per cui tutti i mezzi concorrono nell’unica posizione certa della collisione, data dalle coordinate della petroliera Agip Abruzzi.
Immediatamente fuori dalla diga foranea del Porto veniva segnalata la difficoltà a procedere per visibilità praticamente nulla a causa di un fitto banco di nebbia che costringeva l’equipaggio della Motobarca VF 446 ad effettuare la navigazione strumentale.
Giunto in prossimità della petroliera ed al fine di meglio identificarne la posizione, l’equipaggio della motobarca VF richiedeva a quello della petroliera di effettuare il lancio di segnali luminosi di emergenza.
Alle ore 23.00 c.ca la Motobarca VF 446 si trovava sottoobordo all’Agip Abruzzi dove, in via prioritaria, veniva fornita l’assistenza all’evacuazione dell’equipaggio e quindi si dava inizio alle operazioni di spegnimento.
Lo scenario che si presenta agli occhi del personale VF è quello di un incendio di enormi proporzioni che interessava la zona di poppa della petroliera da cui fuoriuscivano fiamme altissime dallo squarcio delle lamiere prodotto dall’impatto dell’altra nave.
Mentre il petrolio fuoriuscito si riversa in mare e continua a bruciare, creando un incendio di pozza (pool fire), il personale di bordo della petroliera ha autonomamente abbandonato la nave ed è stato recuperato dalla Capitaneria di Porto.
Servendosi dei cannoni di bordo e coadiuvata dai rimorchiatori, la MBP 446 inizia le operazioni di spegnimento utilizzando tutto lo schiumogeno in caricamento. L’intervento sembra avere successo quando, esaurita l’intera scorta di schiumogeno presente a bordo, le fiamme riprendono vigore. Non potendo garantire un’efficace azione di spegnimento, la MBP VF 446 lasciava ai rimorchiatori l’intervento sulla petroliera e si metteva alla ricerca di eventuali naufraghi unitamente alla motovedetta della Capitaneria di Porto ed all’imbarcazione degli ormeggiatori.
Durante tali giri di perlustrazione, alle ore 23.30, veniva avvistato il relitto del Moby Prince, completamente avvolto dalle fiamme, che avanzava in leggero abbrivio in avanti, con moto di rotazione sinistrorso, a c.ca ½ miglio a sud della petroliera.
Alle ore 23.40 gli ormeggiatori scorgono una persona che si trovava sporto fuori bordo al parapetto di poppa del traghetto e lo invitano a lanciarsi in acqua, recuperandolo. All’opera di raffreddamento delle strutture del traghetto, operata dalla motobarca VF, si aggiungevano altri mezzi antincendio privati (rimorchiatori Tito Neri 10° e Tito Neri 2°).
Dal traghetto non giungeva alcun segno di vita e l’incendio a bordo appariva devastante, interessando tutta la nave da prua a poppa.
Il traghetto veniva in qualche modo agganciato con un cavo da un rimorchiatore e, alle ore 11.00 del 11.04.1991, veniva ormeggiato presso la Darsena Petroli – accosto 11 del porto industriale. Intorno alle ore 12.00 del 11.04.1991 il primo contingente di personale VF sale a bordo del traghetto con l’utilizzo della Autoscala, ma le temperature presenti non consentono l’ingresso nei locali al chiuso e si procede, dopo averne avuto autorizzazione dalla A.G., al recupero dei corpi (9) delle persone presenti sul ponte passeggiata di 1° classe lato poppa.
Continuando nell’opera di raffreddamento delle strutture, dopo aver aperto con fiamma ossidrica un varco nelle paratie, nelle ore seguenti ha inizio la pietosa opera di recupero delle salme dei passeggeri e dell’equipaggio del traghetto. Completata l’estinzione dei residui focolai d’incendio viene dato corso alla minuziosa opera di ricerca di ulteriori corpi con conseguente effettuazione dei rilievi di P.G. e loro successivo recupero.
Tutte le salme venivano trasferite in Porto per le operazioni di riconoscimento presso l’hangar della piattaforma “Karen B”. Tale opera si protrarrà fino al giorno 15.04.1991. Il giorno 24.04.1991 il relitto del Moby Prince viene trasferito presso una banchina non operativa della Darsena Toscana a disposizione dell’Autorità Giudiziaria e dei Consulenti Tecnici nominati dal P.M.
L’INCENDIO DEL TRAGHETTO MOBY PRINCE
L’impatto tra la prua del Moby e la murata di ds. dell’Agip Abruzzo è avvenuto in corrispondenza della tank n° 7 dx. (una delle due tank su 7 che risultavano cariche di petrolio “Iranian Ligth” mentre le altre 5 risultavano piene d’acqua di zavorra).
A quel punto l’intero battente liquido (c.ca 2.500 tonnellate di petrolio) che si trovava al di sopra della falla apertasi nella tank si è riversato in mare e sul traghetto percorrendo i ponti esterni ed invadendo il ponte garage.
L’innesco dell’incendio è probabilmente da attribuirsi alle innumerevoli fonti di accensione legate alla deformazione plastica delle lamiere ed alla distruzione degli impianti elettrici presenti nella zona di impatto.
All’incendio ha fatto immediatamente seguito una violenta esplosione verificatasi all’altezza del locale dell’elica di prora (locale Bow-thruster). Detta esplosione è stata di una potenza tale da aver prodotto il rigonfiamento della pavimentazione del garage e da aver divelto il coperchio del locale stesso proiettando un autocarro, che vi si trovava parcheggiato al di sopra e trasportante un cabinato, contro il soffitto del garage, squarciandone la lamiera.
Le persone che si trovavano nei vari ambienti della nave erano state radunate nei punti previsti dal piano di emergenza del traghetto, dove venivano fatti indossare i giubbetti di salvataggio, in previsione di un abbandono nave.
L’incendio dei ponti esterni comprometteva però qualsiasi tentativo di raggiungimento delle scialuppe di salvataggio ed i prodotti della combustione (ricchi di CO ed altri gas tossici) probabilmente veicolati all’interno degli ambienti del traghetto dall’impianto di ventilazione, portavano alla subitanea perdita di conoscenza per avvelenamento della respirazione e successiva morte della maggior parte delle persone.
A seguito dell’urto nell’impatto, la petroliera Agip Abruzzo ruotava in senso orario facendo perno sull’ancora (il “campo di giro” ovvero lo spazio circolare che la nave può occupare ruotando attorno all’ancora ha un raggio approssimativo di circa 500 metri (pari alla lunghezza della catena filata – nel caso in questione c.ca 200 m. - sommato alla lunghezza della nave – 280 m.).
Il traghetto si sfilava così dalla falla (come evidenziano i differenti sensi di piegatura della lamiera sul lato destro e su quello sinistro dello squarcio triangolare prodotto dall’urto – si presume che le due navi siano rimaste tra loro incagliate per un tempo di c.ca 5’) e, dopo aver sfregato per tutta la lunghezza contro la murata della petroliera verso poppa (sono evidenti i segni lasciati sulla lamiera), si allontanava verso sud ormai senza controllo compiendo una sorta di traiettoria circolare in senso sinistrorso e a marcia lenta in avanti.
L'ESPLOSIONE
Nel locale dell’elica (elettrica) di prora (locale Bow-thruster) sono stati rinvenuti segni inequivocabili di una esplosione (rigonfiamento delle pareti e proiezione verso l’alto del coperchio con strappo dei relativi bulloni di fissaggio al pavimento del garage).
Nel corso dei successivi rilievi peritali effettuati sul relitto del Moby nei mesi seguenti, un CTU esplosivista rilevava la presenza nel locale Bow-thruster di tracce di esplosivo riconducibili ad esplosivi di tipo civile (Dinamite) e militare (Semtex). La presenza di molecole di esplosivo in tracce così ridotte da essere rilevabili solo con metodi di cumulazione, sono probabilmente da mettere in relazione alla presenza di “pollini” di sostanze precedentemente trasportate, alla presenza di razzi segnaletici nell’adiacente cala del nostromo o trasportati sul cabinato collocato sull’autocarro in sosta sul boccaporto del locale.
L’ipotesi “bomba” scatenante è ragionevolmente da escludere per le seguenti motivazioni:
Poiché la portata del ventilatore a servizio dell’impianto di trattamento aria del locale è di c.ca 0,83 mc/sec., sono bastati 5,21 sec. Per immettere nel locale la quantità di gas necessaria all’esplosione. Tale intervallo di tempo è quello probabilmente trascorso tra la collisione ed il verificarsi dell’esplosione a prua del ponte di coperta.
Oltre che dall’immissione di vapori attraverso le canalizzazioni di aerazione, i vapori possono essersi originati per evaporazione del petrolio in fase liquida penetrato negli ambienti attraverso le paratie divelte dalla deformazione plastica, conseguente alla collisione (sono sufficienti 30,6 litri d greggio per produrre la quantità di vapori necessaria all’esplosione). In ogni caso si è trattato di una esplosione “dispersa” e non “concentrata” con velocità di accrescimento della pressione di tipo “sonico” e non per detonazione con onda d’urto supersonica.
La sovra-pressione statica generatasi è presumibilmente stimabile in 6 ÷ 8 atmosfere con un tempo di accrescimento di qualche centesimo di secondo. In ultimo occorre evidenziare che l’esplosione è successiva alla collisione, come evidenzia l’impronta del gancio di traino dell’autocarro collocato sul portellone del locale Bow-thruster, stampatasi su una ruga della paratia (ruga chiaramente formatasi a seguito della collisione).
L’effetto “direzionale” dell’esplosione (per il quale l’onda d’urto si è concentrata prevalentemente sul portellone del locale) è da imputarsi alla presenza, nel locale, del pozzetto dell’elica. Tale pozzetto, nel quale si sono concentrati i gas pesati provenienti dal greggio, ha funzionato da “camera a polvere” di un pezzo di artiglieria, rivolto a sparare verso il cielo del locale Bow-thruster.
IL FATTORE NEBBIA
Le condizioni meteorologiche accertate preseti al momento dell’incidente erano quelle per le quali è possibile la formazione di banchi di nebbia “da avvenzione”.
Tale tipo di nebbia, come confermato da un CT meteorologo in sede processuale, si origina in mare (meno frequentemente sulla terraferma) quando una massa d’aria più calda scorre su superfici più fredde, sospinta da un leggero vento (nebbia chiamata “di trasporto”) Essa si origina solo se la temperatura dell’aria è superiore a quella “di rugiada” e quest’ultima è superiore a quella del mare. Al verificarsi di tali condizioni l’aria a contatto con la superficie del mare si raffredda e raggiunge la temperatura di rugiada, saturandosi quindi il vapore acqueo condensa e si ha la formazione di nebbia.
Al momento dell’incidente la temperatura dell’aria era di 14,4 C°, quella di rugiada di 13,9 C° e quella del mare di 13,3 C°. Inoltre la vicinanza dei tre valori (temperatura aria-temperatura acqua e punto di rugiada) fa si che la nebbia formatasi fosse del tipo “a banchi” e “non compatta”.
Detti banchi di nebbia andavano spostandosi da NW verso SE come suffragato dalle segnalazioni della M/N Car Express.
La presenza della nebbia è confermata da:
Oltre che dall’equipaggio dell’Agip Abruzzo e da quello della Motobarca-pompa VF 446 in uscita dal porto poco dopo la collisione.
La presenza di banchi di nebbia è confermata altresì dagli equipaggi delle varie motovedette accorse in soccorso all’Agip Abruzzo.
La particolarità di tale tipologia di nebbia (“di trasporto e a banchi”, con provenienza dal largo verso terra e da Nord verso Sud) è tale per cui la relativa presenza, a seconda della posizione dell’osservatore, può non essere stata rilevata, ciò giustifica il fatto che, da terra, non si avesse la percezione della presenza di nebbia.
La presenza di “nebbia” nello scenario incidentale rappresenta, senza ombra di dubbio, un elemento oggettivo ed inoppugnabile nella catena di eventi che hanno concorso a determinare il disastro. Quanto questa presenza possa essere stata determinante è tuttora motivo di dibattito e accesa contrapposizione tra le parti a qualsiasi titolo coinvolte.
L’INCENDIO DELL’AGIP ABRUZZO
Mobilitati fin dai primi momenti, giungevano in zona operativa le Motobarche VV.F. dei Comandi di La Spezia (VF 447) e di Genova (VF 541), alle predette imbarcazioni si univano anche i rimorchiatori Tito Neri 4°, 7° e 9°.
L’azione delle squadre antincendio era volta ad impedire che l’incendio della Tank n° 7 dx si propagasse alle altre tank contenenti il petrolio o ai vicini bunker di dx (contenente 4300 mc. circa di olio combustibile). All’alba giungono sul posto anche due elicotteri VF (dai Nuclei di Arezzo e Genova), impiegati nella ricerca di eventuali naufraghi.
L’incendio sulla petroliera evolve con fiamme alte interessando, oltre alla cisterna n° 7 di dritta, anche l’attiguo bunker di destra (della capacità di 4.300 mc. di olio combustibile) e, all’esterno, il ponte coperta, A, B, C, D ed E ove sono ubicati i servizi, gli alloggi del personale di bordo ed il ponte comando.
Nel frattempo la Motobarca VF 541 del Comando di Genova lascia il teatro delle operazioni per dirigersi verso lo specchio d’acqua antistante Voltri dove, alle ore 12.30, si era verificata l’esplosione a bordo della superpetroliera VLCC Haven, successivamente incendiatasi ed affondata. A seguito di sopralluogo effettuato atterrando con l’elicottero sul ponte di coperta, la prima squadra di Vigili del Fuoco sale a bordo della petroliera predisponendo quanto necessario ad evitare che l’incendio si propaghi verso le altre tank di carico.
Nonostante lo scenario a bordo lasci presumere una possibile evoluzione dell’incendio in senso peggiorativo, con coinvolgimento di altri tank e conseguente verificarsi di esplosioni di tipo devastante (come poi di fatto verificatosi il giorno 13), la squadra dei vigili del fuoco, a sprezzo del pericolo incombente ed effettuate tutte le valutazioni tecniche del caso, riusciva a raggiungere la sala macchine della petroliera, collocando tubazioni per operare l’allagamento con schiuma del locale. Nella notte la squadra VF viene ritirata e l’incendio continua ad essere aggredito con getti d’acqua dai mezzi nautici antincendio (nel frattempo è giunta sul luogo dell’incidente anche la Motobarca-pompa del Distaccamento Portuale VVF di Civitavecchia.
Il giorno seguente il personale VF procede all’allagamento con acqua della intercapedine di sinistra (c.ca 300 mc.) al fine di aumentarne l’inerzia termica ostacolando la propagazione del calore tra la zona servizi, sala macchine e carico.
Analoga operazione viene svolta anche presso il gavone prodiero. Interviene un ulteriore mezzo nautico antincendio (fire fighting) fatto intervenire dalla società armatrice.
Alle ore 06.00 c.ca del 13.04 si verifica una esplosione di notevole entità in corrispondenza della cisterna dx contenente il bunker e della cisterna n. 15 ubicata a poppavia (al momento vuota). L’esplosione provoca un enorme squarcio nella fiancata della nave con proiezione di grandi parti metalliche della struttura, che solo casualmente non colpiscono la motobarca VF.
A seguito dell’esplosione l’incendio si propaga alla sala macchine.
Nel pomeriggio una squadra di Vigili del Fuoco viene elitrasportata a bordo della petroliera con l’incarico di allestire le condotte antincendio necessarie alla produzione di schiuma a media espansione da versare all’interno della sala macchine. Viene utilizzato liquido schiumogeno fluoro sintetico (fatto arrivare mediante autocisterna caricata a bordo di un pontone) producendo schiuma immessa nella sala macchine mediante appositi versatori.
Viene visivamente notata la formazione di fumi di colore biancastro, indice dalla produzione di vapore acqueo e testimonianza della bontà delle operazioni intraprese.
Contemporaneamente prosegue l’opera di raffreddamento a mezzo di getti d’acqua prodotta dai rimorchiatori, dalle Motobarche e del mezzo Fire Fighting.
Nei giorni seguenti proseguono le operazioni di immissione schiuma in sala macchine, integrate dal raffreddamento delle strutture esterne a mezzo di getti d’acqua.
L’incendio appare per la prima volta “sotto controllo” ed alle ore 12.30 del 17. Aprile 1991 l’incendio sulla M/C Agip Abruzzo viene definitivamente spento.
CONCLUSIONI
L’incidente verificatosi nella rada del Porto di Livorno il 10 aprile 1991 può ascriversi, a giudizio dello scrivente, nel concomitante verificarsi di più eventi negativi tra i quali:
Il personale “vigili del fuoco” in particolare che nelle varie fasi dell’incendio ha operato a bordo della petroliera, pur conscio di esporsi ai gravi rischi insiti in uno scenario in continua ed imprevedibile evoluzione, ha operato con grande professionalità conseguendo lo spegnimento di un incendio di massima severità in mare aperto, senza alcun contributo di apprestamenti da terra. Non meno meritevole di elogio l’operato delle stesse squadre dei vigili del fuoco che sono intervenute a bordo del traghetto, nella penosa e delicatissima opera di recupero delle salme delle vittime del rogo.
Un lavoro quest’ultimo di grande umanità, portato a termine con estrema pazienza, pietas e delicatezza, in uno scenario di grande impegno emotivo.
* Il Comandate Prov. VVF di Livorno all'epoca dei fatti
IL DISASTRO NAVALE NELLA RADA DEL PORTO DI LIVORNO. LA COLLISIONE M/T MOBY PRINCE-M/C AGIP ABRUZZO
di Fabrizio Ceccherini*
ANTEFATTO
La M/C Agip Abruzzo raggiunge la rada del Porto di Livorno, proveniente dall’Egitto, alle ore 22.25 del 09.04.1991 con un carico di 80.078 ton. di greggio “Iranian Light”, caricato presso il porto di Sidi Kerir e destinato alla raffineria di Agip di Stagno.
Il M/T Moby Prince (Soc. Navarma) giunge al Porto di Livorno, proveniente da Olbia, alle ore 18.35 del 09.04.1991.
LE NAVI COINVOLTE
M/T Moby Prince
Comandante Ugo Chessa, Primo Ufficiale Giuseppe Sciacca, Timoniere Aniello Padula.
Equipaggio: totale 65 unità.
Passeggeri: 76 unità.
Automezzi trasportati: 31.
Anno di costruzione: 1967
Cantiere: Birkenhead (BG) – Cammel e Laird
Nome originario: Koningin Juliana
Lunghezza: 116,48 mt.
Larghezza: 19,98 mt.
Altezza ponte principale: 7,19 mt.
Altezza Plancia comando: 15 mt.
Stazza lorda: 6.187,41 ton.
Velocità: 22 nodi
Diametro di evoluzione: 430 mt.
M/C Agip Abruzzo
Comandante: Renato Superina
Equipaggio: totale 30 unità.
Anno di costruzione: 1976 (dejumbizzata nel 1987)
Cantiere: Ital Cantieri Trieste
Lunghezza: 286 mt.
Larghezza: 52 mt.
Altezza ponte principale: 26,6 mt.
Stazza lorda: 98.950 ton.
Capacità cisterne di carico: 184.942 mc.
Immersione alla marca stiva:19,51 mt.
POSIZIONE NAVI IN RADA
Punto di fonda M/C Agip Abruzzo 43°29.7’ N – 010°16’ E (rilevati dal comandante Superina “in plancia”);
Orientamento prua: ~ 300° (N.O.);
Altre navi presenti in rada, nella zona della collisione la sera del 10 aprile 1991 Cape Breton e Gallant, navi militarizzate USA di rientro dalla Guerra del Golfo.
Rotta Moby Prince 191° ÷ 192° passando a 150 ÷ 200 m. dalla diga della Vegliaia 200° ÷ 205° fino alla Cape Breton 191° ÷ 192° direzione Olbia
Velocità di impatto: 20 nodi
Angolo di impatto (prua – poppa): 65° ÷ 70°
Punto di impatto: a 63 m. dalla poppa della M/C Agip Abruzzo.
CONDIZIONI METEOROLOGICHE AL MOMENTO DELL’INCIDENTE
(Da rilevamento Cape Breton)
Temperatura aria: 14,4°
Temperatura acqua: 13,3°
Punto di rugiada: 13,9°
Vento: 2 ÷ 3 nodi da NW
Umidità relaLva: 80,6 % Pressione barica: 1.025 mbar
CRONOLOGIA DELL’INCIDENTE
Ore 21.55 del 10 aprile 1991
Il pilota di servizio SGHERRI sale sul ponte del Moby Prince a banchina all’accosto 55 – Calata Carrara del porto di Livorno;
Ore 22.03
Il traghetto Moby Prince molla gli ormeggi diretto ad Olbia;
Ore 22.10
Il traghetto raggiunge l’imboccatura del porto, il pilota SGHERRI sbarca;
Ore 22.14
Il traghetto passa al traverso della testata di ponente della Diga della Vegliaia;
Ore 22.25
All’esterno del Porto, avviene la collisione tra il traghe/o Moby Prince e la M/C Agip Abruzzo che era ferma e stabilmente ancorata alla fonda nella rada del Porto di Livorno;
Ore 22.25.34”
Il traghetto lancia il “May Day” via rado sul canale 16 di soccorso (“May-day May-day May-day! Moby Prince siamo in collisione…” “siamo in collisione prendiamo fuoco…siamo entrati in collisione prendiamo fuoco!”
Il messaggio non viene percepito dalle stazioni in ascolto sul canale di soccorso (Compmare – Livorno Radio), causa debolezza del segnale e sovrapposizione con altre comunicazioni);
Ore 22.26.09”
La M/C Agip Abruzzo segnala di aver subito uno speronamento e il Comandante Renato Superina lancia, sul canale 16 marino, la richiesta di aiuto per un incendio sviluppatosi a bordo. Alla richiesta di spiegazioni da parte della Capitaneria di Porto aggiunge che l’incendio si è sviluppato a seguito dello speronamento da parte di una nave, identificandola per una non meglio definita “bettolina” (nave cisterna di medie dimensioni utilizzata per l’effettuazione di operazioni di “allibo” su navi il cui pescaggio, superiore alla profondità del fondale nel punto di arrivo, non ne consente l’ingresso nel porto a pieno carico).
La Capitaneria di Porto, alle 22.35, attiva tutti i soccorsi disponibili; la squadra nautica dei Vigili del Fuoco, di stanza al Distaccamento Porto, molla gli ormeggi alle 22.36 partiva a bordo della Motobarca pompa VF 446 alla volta del luogo dell’incidente segnalato dalla Petroliera Agip Abruzzi.
Nel frattempo si reca presso il molo Capitaneria la prima squadra della Sede Centrale di Livorno per essere imbarcata su un’altra motovedetta CP diretta sul luogo del sinistro. Oltre al mezzo nautico VF ed alla motovedetta della Capitaneria di Porto CP 232, si attivano i rimorchiatori del porto (n° 2 imbarcazioni – Tito Neri 7° e Tito Neri 9°).
Al momento non si hanno notizie della seconda nave coinvolta (la presunta “bettolina”) per cui tutti i mezzi concorrono nell’unica posizione certa della collisione, data dalle coordinate della petroliera Agip Abruzzi.
Immediatamente fuori dalla diga foranea del Porto veniva segnalata la difficoltà a procedere per visibilità praticamente nulla a causa di un fitto banco di nebbia che costringeva l’equipaggio della Motobarca VF 446 ad effettuare la navigazione strumentale.
Giunto in prossimità della petroliera ed al fine di meglio identificarne la posizione, l’equipaggio della motobarca VF richiedeva a quello della petroliera di effettuare il lancio di segnali luminosi di emergenza.
Alle ore 23.00 c.ca la Motobarca VF 446 si trovava sottoobordo all’Agip Abruzzi dove, in via prioritaria, veniva fornita l’assistenza all’evacuazione dell’equipaggio e quindi si dava inizio alle operazioni di spegnimento.
Lo scenario che si presenta agli occhi del personale VF è quello di un incendio di enormi proporzioni che interessava la zona di poppa della petroliera da cui fuoriuscivano fiamme altissime dallo squarcio delle lamiere prodotto dall’impatto dell’altra nave.
Mentre il petrolio fuoriuscito si riversa in mare e continua a bruciare, creando un incendio di pozza (pool fire), il personale di bordo della petroliera ha autonomamente abbandonato la nave ed è stato recuperato dalla Capitaneria di Porto.
Servendosi dei cannoni di bordo e coadiuvata dai rimorchiatori, la MBP 446 inizia le operazioni di spegnimento utilizzando tutto lo schiumogeno in caricamento. L’intervento sembra avere successo quando, esaurita l’intera scorta di schiumogeno presente a bordo, le fiamme riprendono vigore. Non potendo garantire un’efficace azione di spegnimento, la MBP VF 446 lasciava ai rimorchiatori l’intervento sulla petroliera e si metteva alla ricerca di eventuali naufraghi unitamente alla motovedetta della Capitaneria di Porto ed all’imbarcazione degli ormeggiatori.
Durante tali giri di perlustrazione, alle ore 23.30, veniva avvistato il relitto del Moby Prince, completamente avvolto dalle fiamme, che avanzava in leggero abbrivio in avanti, con moto di rotazione sinistrorso, a c.ca ½ miglio a sud della petroliera.
Alle ore 23.40 gli ormeggiatori scorgono una persona che si trovava sporto fuori bordo al parapetto di poppa del traghetto e lo invitano a lanciarsi in acqua, recuperandolo. All’opera di raffreddamento delle strutture del traghetto, operata dalla motobarca VF, si aggiungevano altri mezzi antincendio privati (rimorchiatori Tito Neri 10° e Tito Neri 2°).
Dal traghetto non giungeva alcun segno di vita e l’incendio a bordo appariva devastante, interessando tutta la nave da prua a poppa.
Il traghetto veniva in qualche modo agganciato con un cavo da un rimorchiatore e, alle ore 11.00 del 11.04.1991, veniva ormeggiato presso la Darsena Petroli – accosto 11 del porto industriale. Intorno alle ore 12.00 del 11.04.1991 il primo contingente di personale VF sale a bordo del traghetto con l’utilizzo della Autoscala, ma le temperature presenti non consentono l’ingresso nei locali al chiuso e si procede, dopo averne avuto autorizzazione dalla A.G., al recupero dei corpi (9) delle persone presenti sul ponte passeggiata di 1° classe lato poppa.
Continuando nell’opera di raffreddamento delle strutture, dopo aver aperto con fiamma ossidrica un varco nelle paratie, nelle ore seguenti ha inizio la pietosa opera di recupero delle salme dei passeggeri e dell’equipaggio del traghetto. Completata l’estinzione dei residui focolai d’incendio viene dato corso alla minuziosa opera di ricerca di ulteriori corpi con conseguente effettuazione dei rilievi di P.G. e loro successivo recupero.
Tutte le salme venivano trasferite in Porto per le operazioni di riconoscimento presso l’hangar della piattaforma “Karen B”. Tale opera si protrarrà fino al giorno 15.04.1991. Il giorno 24.04.1991 il relitto del Moby Prince viene trasferito presso una banchina non operativa della Darsena Toscana a disposizione dell’Autorità Giudiziaria e dei Consulenti Tecnici nominati dal P.M.
L’INCENDIO DEL TRAGHETTO MOBY PRINCE
L’impatto tra la prua del Moby e la murata di ds. dell’Agip Abruzzo è avvenuto in corrispondenza della tank n° 7 dx. (una delle due tank su 7 che risultavano cariche di petrolio “Iranian Ligth” mentre le altre 5 risultavano piene d’acqua di zavorra).
A quel punto l’intero battente liquido (c.ca 2.500 tonnellate di petrolio) che si trovava al di sopra della falla apertasi nella tank si è riversato in mare e sul traghetto percorrendo i ponti esterni ed invadendo il ponte garage.
L’innesco dell’incendio è probabilmente da attribuirsi alle innumerevoli fonti di accensione legate alla deformazione plastica delle lamiere ed alla distruzione degli impianti elettrici presenti nella zona di impatto.
All’incendio ha fatto immediatamente seguito una violenta esplosione verificatasi all’altezza del locale dell’elica di prora (locale Bow-thruster). Detta esplosione è stata di una potenza tale da aver prodotto il rigonfiamento della pavimentazione del garage e da aver divelto il coperchio del locale stesso proiettando un autocarro, che vi si trovava parcheggiato al di sopra e trasportante un cabinato, contro il soffitto del garage, squarciandone la lamiera.
Le persone che si trovavano nei vari ambienti della nave erano state radunate nei punti previsti dal piano di emergenza del traghetto, dove venivano fatti indossare i giubbetti di salvataggio, in previsione di un abbandono nave.
L’incendio dei ponti esterni comprometteva però qualsiasi tentativo di raggiungimento delle scialuppe di salvataggio ed i prodotti della combustione (ricchi di CO ed altri gas tossici) probabilmente veicolati all’interno degli ambienti del traghetto dall’impianto di ventilazione, portavano alla subitanea perdita di conoscenza per avvelenamento della respirazione e successiva morte della maggior parte delle persone.
A seguito dell’urto nell’impatto, la petroliera Agip Abruzzo ruotava in senso orario facendo perno sull’ancora (il “campo di giro” ovvero lo spazio circolare che la nave può occupare ruotando attorno all’ancora ha un raggio approssimativo di circa 500 metri (pari alla lunghezza della catena filata – nel caso in questione c.ca 200 m. - sommato alla lunghezza della nave – 280 m.).
Il traghetto si sfilava così dalla falla (come evidenziano i differenti sensi di piegatura della lamiera sul lato destro e su quello sinistro dello squarcio triangolare prodotto dall’urto – si presume che le due navi siano rimaste tra loro incagliate per un tempo di c.ca 5’) e, dopo aver sfregato per tutta la lunghezza contro la murata della petroliera verso poppa (sono evidenti i segni lasciati sulla lamiera), si allontanava verso sud ormai senza controllo compiendo una sorta di traiettoria circolare in senso sinistrorso e a marcia lenta in avanti.
L'ESPLOSIONE
Nel locale dell’elica (elettrica) di prora (locale Bow-thruster) sono stati rinvenuti segni inequivocabili di una esplosione (rigonfiamento delle pareti e proiezione verso l’alto del coperchio con strappo dei relativi bulloni di fissaggio al pavimento del garage).
Nel corso dei successivi rilievi peritali effettuati sul relitto del Moby nei mesi seguenti, un CTU esplosivista rilevava la presenza nel locale Bow-thruster di tracce di esplosivo riconducibili ad esplosivi di tipo civile (Dinamite) e militare (Semtex). La presenza di molecole di esplosivo in tracce così ridotte da essere rilevabili solo con metodi di cumulazione, sono probabilmente da mettere in relazione alla presenza di “pollini” di sostanze precedentemente trasportate, alla presenza di razzi segnaletici nell’adiacente cala del nostromo o trasportati sul cabinato collocato sull’autocarro in sosta sul boccaporto del locale.
L’ipotesi “bomba” scatenante è ragionevolmente da escludere per le seguenti motivazioni:
- assenza di tracce di innesco o di detonatore;
- assenza di un “centro di esplosione” all’interno del locale;
- verniciatura delle pareti del locale integra;
- assenza di segni di erosione sulle pareti metalliche del locale;
- la quantità stimata di tritolo necessaria a strappare il boccaporto, a sollevare l’autocarro che vi si trovava parcheggiato sopra e trasportante un cabinato di 8 metri ed a proiettarlo contro il soffitto del ponte garage (c.ca 5 kg.) avrebbe avuto effetti distruttivi su tutto ciò che si trovava nel locale mentre invece alcuni fusti presenti nell’area e le plafoniere dell’impianto di illuminazione sono risultate integre;
- le tracce di esplosivo, nell’ipotesi che la carica fosse stata di c.ca 5 kg., avrebbero dovuto essere molto più consistenti.
Poiché la portata del ventilatore a servizio dell’impianto di trattamento aria del locale è di c.ca 0,83 mc/sec., sono bastati 5,21 sec. Per immettere nel locale la quantità di gas necessaria all’esplosione. Tale intervallo di tempo è quello probabilmente trascorso tra la collisione ed il verificarsi dell’esplosione a prua del ponte di coperta.
Oltre che dall’immissione di vapori attraverso le canalizzazioni di aerazione, i vapori possono essersi originati per evaporazione del petrolio in fase liquida penetrato negli ambienti attraverso le paratie divelte dalla deformazione plastica, conseguente alla collisione (sono sufficienti 30,6 litri d greggio per produrre la quantità di vapori necessaria all’esplosione). In ogni caso si è trattato di una esplosione “dispersa” e non “concentrata” con velocità di accrescimento della pressione di tipo “sonico” e non per detonazione con onda d’urto supersonica.
La sovra-pressione statica generatasi è presumibilmente stimabile in 6 ÷ 8 atmosfere con un tempo di accrescimento di qualche centesimo di secondo. In ultimo occorre evidenziare che l’esplosione è successiva alla collisione, come evidenzia l’impronta del gancio di traino dell’autocarro collocato sul portellone del locale Bow-thruster, stampatasi su una ruga della paratia (ruga chiaramente formatasi a seguito della collisione).
L’effetto “direzionale” dell’esplosione (per il quale l’onda d’urto si è concentrata prevalentemente sul portellone del locale) è da imputarsi alla presenza, nel locale, del pozzetto dell’elica. Tale pozzetto, nel quale si sono concentrati i gas pesati provenienti dal greggio, ha funzionato da “camera a polvere” di un pezzo di artiglieria, rivolto a sparare verso il cielo del locale Bow-thruster.
IL FATTORE NEBBIA
Le condizioni meteorologiche accertate preseti al momento dell’incidente erano quelle per le quali è possibile la formazione di banchi di nebbia “da avvenzione”.
Tale tipo di nebbia, come confermato da un CT meteorologo in sede processuale, si origina in mare (meno frequentemente sulla terraferma) quando una massa d’aria più calda scorre su superfici più fredde, sospinta da un leggero vento (nebbia chiamata “di trasporto”) Essa si origina solo se la temperatura dell’aria è superiore a quella “di rugiada” e quest’ultima è superiore a quella del mare. Al verificarsi di tali condizioni l’aria a contatto con la superficie del mare si raffredda e raggiunge la temperatura di rugiada, saturandosi quindi il vapore acqueo condensa e si ha la formazione di nebbia.
Al momento dell’incidente la temperatura dell’aria era di 14,4 C°, quella di rugiada di 13,9 C° e quella del mare di 13,3 C°. Inoltre la vicinanza dei tre valori (temperatura aria-temperatura acqua e punto di rugiada) fa si che la nebbia formatasi fosse del tipo “a banchi” e “non compatta”.
Detti banchi di nebbia andavano spostandosi da NW verso SE come suffragato dalle segnalazioni della M/N Car Express.
La presenza della nebbia è confermata da:
- M/N Car Express (ore 20.30 – 1 miglio a nord Isola Gorgona).
- Peschereccio “Delfino” e “Mauro I” (ore 22.25 a ½ miglio dall’Agip Abruzzo).
- Peschereccio “Emma” (ore 22.10 – “un banco “micidiale” non si vedeva ad un metro).
- M/N Cape Breton (5’ prima della collisione).
- M/N Port de Lion (alla fonda a 43° 33’ N – 010° 16.3’ E).
- M/N Hesperus (alla fonda a 43° 32.5’ N – 010° 15.3’ E).
Oltre che dall’equipaggio dell’Agip Abruzzo e da quello della Motobarca-pompa VF 446 in uscita dal porto poco dopo la collisione.
La presenza di banchi di nebbia è confermata altresì dagli equipaggi delle varie motovedette accorse in soccorso all’Agip Abruzzo.
La particolarità di tale tipologia di nebbia (“di trasporto e a banchi”, con provenienza dal largo verso terra e da Nord verso Sud) è tale per cui la relativa presenza, a seconda della posizione dell’osservatore, può non essere stata rilevata, ciò giustifica il fatto che, da terra, non si avesse la percezione della presenza di nebbia.
La presenza di “nebbia” nello scenario incidentale rappresenta, senza ombra di dubbio, un elemento oggettivo ed inoppugnabile nella catena di eventi che hanno concorso a determinare il disastro. Quanto questa presenza possa essere stata determinante è tuttora motivo di dibattito e accesa contrapposizione tra le parti a qualsiasi titolo coinvolte.
L’INCENDIO DELL’AGIP ABRUZZO
Mobilitati fin dai primi momenti, giungevano in zona operativa le Motobarche VV.F. dei Comandi di La Spezia (VF 447) e di Genova (VF 541), alle predette imbarcazioni si univano anche i rimorchiatori Tito Neri 4°, 7° e 9°.
L’azione delle squadre antincendio era volta ad impedire che l’incendio della Tank n° 7 dx si propagasse alle altre tank contenenti il petrolio o ai vicini bunker di dx (contenente 4300 mc. circa di olio combustibile). All’alba giungono sul posto anche due elicotteri VF (dai Nuclei di Arezzo e Genova), impiegati nella ricerca di eventuali naufraghi.
L’incendio sulla petroliera evolve con fiamme alte interessando, oltre alla cisterna n° 7 di dritta, anche l’attiguo bunker di destra (della capacità di 4.300 mc. di olio combustibile) e, all’esterno, il ponte coperta, A, B, C, D ed E ove sono ubicati i servizi, gli alloggi del personale di bordo ed il ponte comando.
Nel frattempo la Motobarca VF 541 del Comando di Genova lascia il teatro delle operazioni per dirigersi verso lo specchio d’acqua antistante Voltri dove, alle ore 12.30, si era verificata l’esplosione a bordo della superpetroliera VLCC Haven, successivamente incendiatasi ed affondata. A seguito di sopralluogo effettuato atterrando con l’elicottero sul ponte di coperta, la prima squadra di Vigili del Fuoco sale a bordo della petroliera predisponendo quanto necessario ad evitare che l’incendio si propaghi verso le altre tank di carico.
Nonostante lo scenario a bordo lasci presumere una possibile evoluzione dell’incendio in senso peggiorativo, con coinvolgimento di altri tank e conseguente verificarsi di esplosioni di tipo devastante (come poi di fatto verificatosi il giorno 13), la squadra dei vigili del fuoco, a sprezzo del pericolo incombente ed effettuate tutte le valutazioni tecniche del caso, riusciva a raggiungere la sala macchine della petroliera, collocando tubazioni per operare l’allagamento con schiuma del locale. Nella notte la squadra VF viene ritirata e l’incendio continua ad essere aggredito con getti d’acqua dai mezzi nautici antincendio (nel frattempo è giunta sul luogo dell’incidente anche la Motobarca-pompa del Distaccamento Portuale VVF di Civitavecchia.
Il giorno seguente il personale VF procede all’allagamento con acqua della intercapedine di sinistra (c.ca 300 mc.) al fine di aumentarne l’inerzia termica ostacolando la propagazione del calore tra la zona servizi, sala macchine e carico.
Analoga operazione viene svolta anche presso il gavone prodiero. Interviene un ulteriore mezzo nautico antincendio (fire fighting) fatto intervenire dalla società armatrice.
Alle ore 06.00 c.ca del 13.04 si verifica una esplosione di notevole entità in corrispondenza della cisterna dx contenente il bunker e della cisterna n. 15 ubicata a poppavia (al momento vuota). L’esplosione provoca un enorme squarcio nella fiancata della nave con proiezione di grandi parti metalliche della struttura, che solo casualmente non colpiscono la motobarca VF.
A seguito dell’esplosione l’incendio si propaga alla sala macchine.
Nel pomeriggio una squadra di Vigili del Fuoco viene elitrasportata a bordo della petroliera con l’incarico di allestire le condotte antincendio necessarie alla produzione di schiuma a media espansione da versare all’interno della sala macchine. Viene utilizzato liquido schiumogeno fluoro sintetico (fatto arrivare mediante autocisterna caricata a bordo di un pontone) producendo schiuma immessa nella sala macchine mediante appositi versatori.
Viene visivamente notata la formazione di fumi di colore biancastro, indice dalla produzione di vapore acqueo e testimonianza della bontà delle operazioni intraprese.
Contemporaneamente prosegue l’opera di raffreddamento a mezzo di getti d’acqua prodotta dai rimorchiatori, dalle Motobarche e del mezzo Fire Fighting.
Nei giorni seguenti proseguono le operazioni di immissione schiuma in sala macchine, integrate dal raffreddamento delle strutture esterne a mezzo di getti d’acqua.
L’incendio appare per la prima volta “sotto controllo” ed alle ore 12.30 del 17. Aprile 1991 l’incendio sulla M/C Agip Abruzzo viene definitivamente spento.
CONCLUSIONI
L’incidente verificatosi nella rada del Porto di Livorno il 10 aprile 1991 può ascriversi, a giudizio dello scrivente, nel concomitante verificarsi di più eventi negativi tra i quali:
- la mancanza di visibilità nella zona per la presenza di nebbia (all’epoca non erano presenti i moderni sistemi di localizzazione ed identificazione delle navi in transito o in sosta nell’ambito della rada del porto);
- la mancata captazione della richiesta di soccorso da parte del traghetto (per probabile debolezza di segnale dell’apparato radio di bordo/sovrapposizione con altri messaggi privati sul canale di soccorso), che ha comportato la concentrazione dei soccorsi verso l’unica nave (la petroliera Agip Abruzzo) della quale era nota la posizione e la necessità di aiuti (stante la presenza di incendio a bordo);
- la casualità del fatto che l’urto sia avvenuto proprio in corrispondenza di una tank, delle sole due sul lato di dritta della petroliera, piene di petrolio e non di acqua di zavorra;
- Il fatto che il traghetto, dopo l’impatto con la petroliera, invece di rimanere incastrato, si sia disincagliato proseguendo la sua corsa, ormai senza controllo, verso sud allontanandosi dalla vista e dalla zona dove si stavano concentrando i mezzi di soccorso.
- Impossibilità materiale dell’effettuazione delle manovre di abbandono nave da parte del personale (di bordo e passeggero) del traghetto, a causa presenza di incendio esterno coinvolgente tutti i ponti della nave;
- Rapida perdita di conoscenza da parte delle persone presenti a bordo del traghetto, a seguito di avvelenamento da inalazione dei prodotti della combustione (CO, H2S ecc.) presenti all’esterno ed all’interno della nave e veicolati negli ambienti dall’impianto di ventilazione.
Il personale “vigili del fuoco” in particolare che nelle varie fasi dell’incendio ha operato a bordo della petroliera, pur conscio di esporsi ai gravi rischi insiti in uno scenario in continua ed imprevedibile evoluzione, ha operato con grande professionalità conseguendo lo spegnimento di un incendio di massima severità in mare aperto, senza alcun contributo di apprestamenti da terra. Non meno meritevole di elogio l’operato delle stesse squadre dei vigili del fuoco che sono intervenute a bordo del traghetto, nella penosa e delicatissima opera di recupero delle salme delle vittime del rogo.
Un lavoro quest’ultimo di grande umanità, portato a termine con estrema pazienza, pietas e delicatezza, in uno scenario di grande impegno emotivo.
* Il Comandate Prov. VVF di Livorno all'epoca dei fatti