L'incendio del Traforo del Bianco
Erano le 10.30 del 24 marzo 1999. Una giornata come molte altre anche per Gilbert Degrave, alla guida del suo Volvo FH12, un autoarticolato carico di margarina e farina. Aveva da poco lasciato Chamonix per entrare nel tunnel che l’avrebbe portato in Italia, e poi in qualche azienda dove avrebbe scaricato il suo pesante carico. Tutto procedeva con regolarità; Gilbert percorse circa sei chilometri.
Ormai era nel profondo della lunghezza del tunnel, quando improvvisamente, erano le 10.46, il camion prese fuoco. Quattro minuti dopo qualcuno dall’interno del tunnel fece scattare l’allarme. Il traforo venne immediatamente chiuso al traffico nei due sensi di marcia. Si attivano i soccorsi. Una prima squadra di pompieri aziendali ripercorre la direzione di marcia del TIR, ma si blocca a soli 1200 metri dall’incendio. Quattordici minuti dopo entrano i pompieri di Chamonix: dovranno fermarsi a 2700 metri. Dal lato italiano ci provano quelli di Courmayeur, ma devono fermarsi a soli 300 metri dall’epicentro del fumo.
Le prime informazioni parlano di un TIR incendiato e, forse, qualche autovettura.
Nel frattempo in piattaforma arrivano anche i mezzi della centrale di Aosta; alle 12.00 entrano anch’essi nel tunnel, ma devono arretrare e si rifugiano nel garage 24.
Da questo momento diventa evidente che l’intervento è più difficoltoso di quanto paventato. Si tenta la ricerca dei superstiti, ma solo dopo aver domato le fiamme e abbassato la temperatura cominciano a delinearsi, atroci, i contorni della catastrofe: saranno 34 i mezzi coinvolti nell’incendio e, purtroppo, 39 i morti. Agli occhi di chi raggiunge il luogo del disastro si offre null’altro che l’arrendevole e desolato scenario della deformità, l’orrore di una regia occulta e insensata che mostra sfacciata quanto fragili siano i limiti di ciò che è umanamente possibile concepire.
Gli ammassi di lamiere contorte dal terribile calore, cominciano a malapena a delinearsi tra il fumo e l’oscurità di quel lungo budello. Gli esperti calcolarono che all’interno si sviluppò una temperatura ben superiore ai 1500 gradi. Per tre giorni vigili del fuoco italiani e francesi lottarono al limite della resistenza fisica e psicologica contro il fuoco e il fumo, ma soprattutto contro il calore, perché erano troppi quei 1500 gradi per permettere a qualunque forma di vita, e non solo, di avvicinarsi, anche solo a distanza.
Possiamo solo provare ad immaginare cosa avvenne lì dentro, ma la nostra immaginazione sarebbe molto, ma molto distante dalla realtà.
Il dolore e il grande senso di frustrazione di chi operò in quell’inferno, ancora oggi è presente e grande nei ricordi e nelle testimonianze di coloro i quali c’erano, riportati nelle pagine di questo Quaderno.
Una frustrazione ancora viva a distanza di oltre vent’anni, perché non fu possibile evitare quella strage nonostante gli immani sforzi compiuti per cercare di portare via qualcuno ancora in vita da quelle lungo buco in fiamme.
Però non tutto fu vano. Rimane la magra ma importante consolazione che da quel giorno nulla fu più come prima per quanto riguarda la sicurezza dei trafori.
Purtroppo come spesso avviene, solo le grandi tragedie imprimono una forte spinta per riformare l’esistente. Fu così per la tragedia del Cinema Statuto a Torino nel 1983; lo è stato dopo il 24 marzo del 1999 con il rogo del Traforo del Monte Bianco.
Ormai era nel profondo della lunghezza del tunnel, quando improvvisamente, erano le 10.46, il camion prese fuoco. Quattro minuti dopo qualcuno dall’interno del tunnel fece scattare l’allarme. Il traforo venne immediatamente chiuso al traffico nei due sensi di marcia. Si attivano i soccorsi. Una prima squadra di pompieri aziendali ripercorre la direzione di marcia del TIR, ma si blocca a soli 1200 metri dall’incendio. Quattordici minuti dopo entrano i pompieri di Chamonix: dovranno fermarsi a 2700 metri. Dal lato italiano ci provano quelli di Courmayeur, ma devono fermarsi a soli 300 metri dall’epicentro del fumo.
Le prime informazioni parlano di un TIR incendiato e, forse, qualche autovettura.
Nel frattempo in piattaforma arrivano anche i mezzi della centrale di Aosta; alle 12.00 entrano anch’essi nel tunnel, ma devono arretrare e si rifugiano nel garage 24.
Da questo momento diventa evidente che l’intervento è più difficoltoso di quanto paventato. Si tenta la ricerca dei superstiti, ma solo dopo aver domato le fiamme e abbassato la temperatura cominciano a delinearsi, atroci, i contorni della catastrofe: saranno 34 i mezzi coinvolti nell’incendio e, purtroppo, 39 i morti. Agli occhi di chi raggiunge il luogo del disastro si offre null’altro che l’arrendevole e desolato scenario della deformità, l’orrore di una regia occulta e insensata che mostra sfacciata quanto fragili siano i limiti di ciò che è umanamente possibile concepire.
Gli ammassi di lamiere contorte dal terribile calore, cominciano a malapena a delinearsi tra il fumo e l’oscurità di quel lungo budello. Gli esperti calcolarono che all’interno si sviluppò una temperatura ben superiore ai 1500 gradi. Per tre giorni vigili del fuoco italiani e francesi lottarono al limite della resistenza fisica e psicologica contro il fuoco e il fumo, ma soprattutto contro il calore, perché erano troppi quei 1500 gradi per permettere a qualunque forma di vita, e non solo, di avvicinarsi, anche solo a distanza.
Possiamo solo provare ad immaginare cosa avvenne lì dentro, ma la nostra immaginazione sarebbe molto, ma molto distante dalla realtà.
Il dolore e il grande senso di frustrazione di chi operò in quell’inferno, ancora oggi è presente e grande nei ricordi e nelle testimonianze di coloro i quali c’erano, riportati nelle pagine di questo Quaderno.
Una frustrazione ancora viva a distanza di oltre vent’anni, perché non fu possibile evitare quella strage nonostante gli immani sforzi compiuti per cercare di portare via qualcuno ancora in vita da quelle lungo buco in fiamme.
Però non tutto fu vano. Rimane la magra ma importante consolazione che da quel giorno nulla fu più come prima per quanto riguarda la sicurezza dei trafori.
Purtroppo come spesso avviene, solo le grandi tragedie imprimono una forte spinta per riformare l’esistente. Fu così per la tragedia del Cinema Statuto a Torino nel 1983; lo è stato dopo il 24 marzo del 1999 con il rogo del Traforo del Monte Bianco.