Il martririo di Giuseppe Gibellino nella Liberazione di Torino
Tratto da: Michele Sforza, La città sotto il fuoco della guerra, U. Allemandi & C., Torino 1998.
Il vigile Giuseppe Gibellino.
La squadra del Distaccamento di guerra del "Martinetto", sede in cui era presente una forte componente di vigili-partigiani.
La camera ardente allestita nella caserma centrale con la bara di Giuseppe Gibellino.
I funerali solenni di Giuseppe Gibellino e di tutti i partigiani caduti nei giorni conclusivi la Liberazione di Torino. La mamma di Giuseppe è seduta di fianco all'autista.
Pensiero Stringa.
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In questa pagina si vuole raccontare la storia di un vigile del fuoco morto in combattimento e piccoli frammenti della lotta di Liberazione: Giuseppe Gibellino.
Il 24 aprile 1945 iniziò per i vigili del fuoco la fase insurrezionale. Da subito vennero occupate militarmente tutte le sedi distaccate. Nella caserma centrale di Porta Palazzo si insediò la 6a Divisione Speciale SAP. Venne istituito un servizio di sorveglianza ai ripetitori radiofonici dell’Eremo, per evitarne la distruzione da parte dei tedeschi. Il 24 venne finalmente emanato dal CMR piemontese il tanto atteso «Aldo dice 26x1» che di fatto dava inizio alla fase conclusiva dell’insurrezione per il giorno 26 all’una di notte, secondo il piano di attacco «E 27». Questo il testo del telegramma: Il 25 venne liberata dai vigili del fuoco la sede dell’Eiar, l’Ente radiofonico italiano, l’attuale RAI. L’intero apparato di mezzi del Corpo, parallelamente ai normali compiti di istituto, viene messo a disposizione per lo svolgimento dei servizi di staffetta, logistici, trasporto armi, materiali, feriti e truppe partigiane. Le nostre officine funzionavano a pieno ritmo per garantire un’assistenza agli automezzi dei partigiani. All’interno della caserma centrale vennero predisposti degli spazi per ospitare i fascisti e i tedeschi che man mano venivano fatti prigionieri dai partigiani. Come dimenticare l’operato dei giovani pompieri Lorenzo Sesia e Giuseppe Cullino (Tigre), staffette della «Pensiero Stringa». Le fabbriche erano oramai saldamente in mano agli operai e ai sappisti, con il gravoso e immane compito di contrastare un nemico ancora forte di decine di carri armati e migliaia di uomini. Le poche armi in mano ai resistenti bastarono tuttavia a fronteggiare per un paio di giorni la forza d’urto dei tedeschi, almeno fino all’arrivo delle formazioni foranee, bloccate alle porte della città da un falso contrordine emanato, come si scoprì in seguito, dal comando alleato nel tentativo di rallentare l’avanzata dei partigiani su Torino, per essere loro a liberare la città. La giornata del 26 aprile si svolse in modo drammatico. Le forze tedesche e fasciste tentarono di riconquistare le posizioni perdute. I resistenti cercarono con le poche armi leggere, le poche bombe molotov, ma con tanto coraggio e determinazione, di difendere le fabbriche e le parti della città conquistate al nemico. Un nemico che lentamente si chiudeva nel centro della città attorno ai loro quartieri generali: corso Oporto oggi corso Marconi, l’Albergo Nazionale in via Roma sede delle S.S. tedesche, la Caserma Dogali di via Asti sede della GNR. Il giorno successivo fu non meno drammatico. Nell’assalto della famigerata caserma di via Asti, dove vennero torturati e assassinati molti partigiani e partigiane, cadde il vigile del fuoco Giuseppe Gibellino accorso per la presa della caserma. Con altri vigili Giuseppe stava azionando un cannoncino da 75/17 posizionato sul corso Alberto Picco che sovrastava la caserma. Un colpo di mortaio di risposta esplose vicino al gruppo. Gibellino investito in pieno dalla deflagrazione morì all’istante, gli altri subirono ferite più o meno gravi. Gibellino fu solo l’ultima delle vittime tra i vigili del fuoco. Nei mesi precedenti altri circa 40 vigili caddero fucilati, o nelle azioni di combattimento o nei campi di concentramento. I PARTIGIANI VIGILI DEL FUOCO DELLA XXIII BRIGATA CELERE "PENSIERO STRINGA" Fin dal settembre 1943 diversi elementi dell’83° Corpo Vigili del Fuoco di Torino avevano svolta opera di propaganda, di organizzazione e di collaborazione coi Partigiani delle montagne piemontesi. Ai primi di giugno del 1944 tali elementi diedero un carattere più spiccatamente militare alla loro primitiva organizzazione patriottica, tant’è che nel successivo agosto portò alla costituzione di una intera brigata SAP, intitolata a “Pensiero Stringa” un glorioso vigile partigiano, caduto in combattimento contro i nazi-fascisti il 5 luglio, alle «Basse di Stura», allora estrema periferia a nord della città nei pressi del torrente Stura. In servizio al distaccamento del Martinetto, venne smobilitato il 10 agosto 1943 per chiamata alle armi. Si aggregò invece alla 105° Brigata Garibaldi «Carlo Pisacane», che operava nella zona di Luserna San Giovanni. La Brigata “Pensiero Stringa” fu quindi tra le prime brigate sappiste a formarsi sul territorio cittadino. Forte della determinazione dei suoi organizzatori e dei componenti che seppero sfruttare al meglio le enormi risorse del Comando dei Vigili del Fuoco, in breve si affermò come uno dei più agguerriti gruppi di partigiani non solo sul territorio cittadino. I sappisti della XXIII Brigata Garibaldina “Pensiero Stringa” lavoravano incessantemente in due distinte direzioni: danneggiare l’organizzazione nazifascista e supportare la lotta dei partigiani foranei. La capacità operativa della brigata aveva raggiunto degli ottimi livelli, tanto da essere in grado di maneggiare mine ed esplosivo, utilizzato in gran quantità per il sabotaggio di baraccamenti militari, centrali e linee elettriche ad alta tensione. L’azione della brigata fu anche volta al trasferimento verso luoghi sicuri di prigionieri alleati, di ebrei, la consegna di dispacci e posta indirizzata alle formazioni partigiane di montagna. La brigata si formò in un preciso momento della storia cittadina. Per molti degli irrequieti pompieri di Torino, all’indomani dell’8 settembre 1943, giorno dell’annuncio della firma dell’armistizio con gli alleati, fu un fatto del tutto naturale e spontaneo schierarsi con l’emergente movimento di resistenza, e diventarne con il trascorrere dei mesi uno dei maggiori punti di riferimento. Già da qualche tempo covava in loro un forte sentimento di ostilità verso il regime e i tedeschi non ancora in veste di occupanti; un’avversione che proruppe con i tragici fatti dell’Opificio Militare di Torino del 10 settembre 1943. La struttura, che si trova tutt’ora in corso Regina Margherita 16, venne precipitosamente abbandonata dai militari di presidio, nelle ore precedenti l’arrivo dei tedeschi. Nella totale confusione di quei giorni, molti torinesi, spinti comprensibilmente dagli stenti e dalle difficoltà di anni di rinunce, cercavano di trafugare dai magazzini militari e dalle caserme abbandonate, cibo, legna, stoffa, scarpe, coperte; beni utili per prepararsi a un inverno che si annunciava duro. Un flusso di gente che inizialmente portava via qualcosa, in maniera spontanea e discreta. Con il passare delle ore il flusso discreto divenne una massa enorme e organizzata. L’opificio era ancora provvisto di quei generi indispensabili quanto preziosissimi per gli abitanti del quartiere. Quel giorno, erano circa le 12.00, una colonna militare germanica, appena giunta in città, senza alcuna esitazione né pietà, mitragliò la popolazione civile intenta al saccheggio dei depositi. Venne compiuta una vera strage. Al termine della sparatoria ben dodici persone, la maggioranza donne, rimasero a terre uccise dal piombo nazista. Così si presentò a Torino l’occupante nazista. I vigili vennero chiamati per estinguere l’incendio appiccato dagli stessi nazisti, «e dopo un’ora circa di lavoro l’incendio era completamente spento, e trattandosi che nel frattempo i militi della croce rossa aveva trasportato via i feriti e i morti che si trovavano sulla strada lasciando le chiazze di sangue sul terreno, allora io colla stessa condotta ho fatto lavare in modo da non lasciare più tracce». Lì tra le donne morte per mano nazista si accese, anche in quegli elementi tra i pompieri che fino allora avevano mantenuto un atteggiamento di distanza dalla politica, un forte odio verso l’occupante e verso i loro sostenitori fascisti. [...] dietro i carri armati c’erano tre o quattro camion scassatissimi della Wermacht carichi di S.S. che venivano giù passando in corso Regina Margherita davanti all’Opificio Militare, ... per salvare il salvabile, ... per salvare il materiale che non andasse in mano ai tedeschi [...] Visto che rubacchiavano, quei bastardi di tedeschi tirano giù le mitragliatrici e hanno ammazzato dieci o dodici (mogli, donne ... della popolazione), le hanno ammazzate lì sul posto. Poi mandano a chiamare i pompieri perché vadano a ritirare i cadaveri, perché noi facevamo quel lavoro lì. Porco Dio, ho detto io con il Capo Distaccamento Odassio, ma dobbiamo fare quella fine lì, davanti a quei bastardi, ah, tra parentesi vengono da noi e portano via una vettura, un 1100 nuovo che avevamo lì e sono andati. [...] Ecco dopo quell’affare lì noi abbiamo cominciato ad arrabbiarci ... e allora da quel momento lì, qualcuno è andato in montagna. Essendo già sufficientemente politicizzati e antifascisti, per molti vigili la scelta di campo non fu un fatto casuale, fu anzi la conclusione «naturale» di un processo critico affermatosi e consolidatosi con la conoscenza dei drammi umani che si verificarono durante le incursioni. Pur essendo sottoposti ad una disciplina militare, dopo l’8 settembre ovunque i pompieri rimasero al loro posto, a differenza dell’esercito che lasciato senza direttive si sbandò. La forte avversione si acuì anche con il rientro nel Corpo di quei vigili del fuoco impegnati sui vari fronti di guerra. Questi narrarono non solo le sofferenze della guerra, ma anche il disgusto per il comportamento sleale dei militari tedeschi nei loro confronti sui campi di battaglia. |