27 gennaio 2023 - Il Giorno della Memoria
di Michele Sforza
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In Italia, dal nord al sud del Paese, moltissimi vigili del fuoco, abbandonando la relativa tranquilla certezza di giungere alla fine del conflitto, indipendentemente dagli esiti, incolumi dagli eventi perché protetti dai privilegi di un Corpo indispensabile, che richiedeva è vero un impegno duro e pericoloso, ma che restituiva volendo un’ottima nicchia al riparo degli avvenimenti, preferirono unirsi all’azione dei combattenti della montagna, dandosi spontaneamente ad un una lotta fatta di pericoli, carcere, deportazioni, pagando spesso anche con la vita la coerenza della scelta.
Ma non tutti i vigili scelsero la clandestinità. Molti con una scelta altrettanto coraggiosa e forse più pericolosa, preferirono rimanere ai loro posti per svolgere nella clandestinità azioni di cospirazione, di fiancheggiamento e di sabotaggio, avvalendosi del grande apparato logistico-organizzativo del Corpo, come automezzi, materiali, benzina, lasciapassare, documenti, mezzi di comunicazione. Si aggregarono così in modo spontaneo, perché mossi da un unico ideale politico e da un medesimo desiderio: combattere i nazifascisti, in qualunque modo e con qualsiasi mezzo. E fu una scelta ancor più pericolosa se si considerano i vincoli e i controlli, continuamente esercitati dalle autorità fasciste sull’attività dei vigili del fuoco. Necessitava così combattere il regime ben due volte; la prima in modo diretto imbracciando un’arma, la seconda cospirando affinché non fosse palese l’attività clandestina. L’intelligenza dei responsabili permise la coniugazione dei due momenti, tanto da riuscire a mettere su una capillare ed efficiente organizzazione. Le delazioni e le denunce in percentuale alle azioni compiute furono poche. Fondamentalmente il vigile del fuoco, anche il più tiepido o indifferente agli avvenimenti, non era un convinto assertore della causa fascista. E lo si evince dai numerosi casi di rifiuto della tessera del fascio e di giuramento alla Repubblica Sociale. Essendo già sufficientemente politicizzati e antifascisti, per molti vigili la scelta di campo non fu un fatto casuale, fu anzi la conclusione «natura- le» di un processo critico affermatosi e consolidatosi con la conoscenza dei drammi umani che si verificarono durante le incursioni e i bombardamenti aerei che flagellarono le nostre città. Pur essendo sottoposti ad una disciplina militare, dopo l’8 settembre ovunque i pompieri rimasero al loro posto, a differenza di altre istituzioni statali e militari, che lasciate senza direttive si sbandò. La forte avversione si acuì anche con il rientro nel Corpo di quei vigili del fuoco impegnati sui vari fronti di guerra. Questi narrarono non solo le sofferenze della guerra, ma anche il disgusto per il comportamento sleale dei militari tedeschi nei loro confronti sui campi di battaglia. Già nei primi giorni di settembre del 1943 incominciò per i pompieri l’attività segreta, con il compito di procurare armi, viveri, vestiario, materiale clandestino di propaganda e protezione alle formazioni partigiane, che man mano si andavano formando sui monti. Nelle città l’attività non fu meno intensa, tutt’altro. Qui, come è stato detto, i pericoli erano forse diversi dai resistenti foranei. Se questi ultimi erano esposti ai pericoli dei combattimenti e delle rappresaglie maggiori, quelli che scelsero di svolgere un’attività resistenziale occulta, erano sottoposti a rigidi controlli da parte dell’Ovra e delle SS naziste, che esponevano i vigili a rischi continui. Infatti molti di questi resistenti vennero catturati a casa o in servizio e dapprima detenuti nei “bracci della morte” delle carceri italiane e poi inviati nei campi di concentramento tedeschi. Alcuni rientrarono dopo la Liberarione, altri non fecero più ritorno in patria. Vogliamo ricordare nel “Giorno della Memoria” uno di questi vigili del fuoco: Giovanni Mantelli, matricola impressa sull’avambraccio n. 10259, sopravvissuto al campo di sterminio in cui venne tenuto prigioniero, che grazie al fatto di aver potuto fare ritorno, oltre ad aver avuto salva la vita, ci ha potuto lasciare un’importante testimonianza dei pericoli, delle privazioni, delle umiliazioni e dell’annullamento della propria personalità subite durante la lunga prigionia in un sottocampo di Dachau. In questo racconto Giovanni Mantelli ci narra in modo forte e crudo, ma con una forma priva di enfasi e di retorica e con grande umiltà, il suo drammatico vissuto, simile a quello di altre migliaia di deportati. Mantelli non fu il solo a vivere quella triste e dura vicenda. Francesco Aime non tornò mai più. Giovanni Bricco rientò minato nel fisico per morire qualche anno dopo. Walter Bottoni, Giulio Boero, Francesco Gilli, Carlo Girardi, Pasquale Baretta, Gian Carlo Fissore, Luciano Schierano, tutti vigili che che conobbero gli orrori della deportazione. |