L’arbaltùn (il ribaltone) - I primi giorni dell’occupazione nazista a Mantova
Di Maurizio Fochi (tratto da una pubblicazione di Renzo Dall’Ara)
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Uno degli argomenti oggi forse meno conosciuti dai mantovani riguarda la prigionia dei soldati italiani nei Campi di Concentramento della loro città, dopo l’8 di settembre. Venne trattato per la prima volta in un Convegno Internazionale di studi, tenutosi proprio a Mantova nel 1984, con il titolo: “I prigionieri militari italiani durante la seconda guerra mondiale”. Evento realizzato sotto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica.
L’illustre giornalista mantovano Renzo Dall’Ara vi presentò una sua ricerca in cui raccolse una trentina di testimonianze che poi inserì in una monografia realizzata a compendio della conferenza. Me ne parlò quando andai a casa sua in occasione della realizzazione del documentario “I ricordi e la memoria” nel 2016. Mi raccontò d’aver raccolto quella serie di testimonianze poi riunite in una piccola pubblicazione dal titolo: “I campi di concentramento a Mantova dall’8 di settembre 1943 alla liberazione”. Dall’Ara in quelle poche pagine seppe raccontare un aspetto della gente mantovana, non di meno dei vigili del fuoco della città, ormai oggi dimenticato. Cioè la reazione solidale dell’intera cittadinanza, quando migliaia di militari italiani vennero ammassati nei tre campi di concentramento creati alle porte della nostra città, nei giorni seguenti l’8 settembre 1943. Ecco come raccontò quel giorno fatidico. L’arbaltùn (il ribaltone) La caduta del fascismo era stata accolta con una “manifestazione di entusiasmo”, come scrisse il quotidiano “La voce di Mantova”, che comunque si era “contenuta in un’esemplare disciplina”. Anche se non era “mancato qualche piccolo incidente” - aveva scritto il giornale - nell’insieme era “prevalso il comportamento disciplinato”, dopo quello del 25 luglio (dimissioni di Benito Mussolini, il maresciallo Pietro Badoglio capo del governo, il Re comandante supremo delle Forze Armate), il secondo drammatico shock era venuto alle 19.42 dell’8 settembre quando la voce molto professionale e “littoria” dell’annunciatore dell’EIAR, Giovanni Battista Arista, aveva interrotto un intermezzo di marce militari per dire che il Capo del Governo doveva fare una comunicazione di estrema importanza. Le poche migliaia di apparecchi radio tutte accese a quell’ora assolvevano il compito di posti di ascolto collettivi per tutto il vicinato e così i mantovani ricevevano dalla voce di Badoglio la sconvolgente notizia che gli anglo-americani non erano più nemici, l’armistizio era stato firmato su richiesta italiana e che “le forze italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Il messaggio di Badoglio, registrato, veniva ripetuto più volte ad intervalli. Sconvolta, sbalordita, la gente si riversava per le strade, era un settembre caldissimo. Dalle caserme uscivano pattuglie che facevano rispettare il coprifuoco, che iniziava alle 23.30 e si concludeva alle 4.30. I comandi germanici intanto non perdevano tempo, mentre quelli italiani attendevano ordini che non venivano, anche se ai primi di settembre era arrivata la memoria n. 44 dello Stato Maggiore del R. Esercito, i reparti avrebbero dovuto reagire a possibili attacchi tedeschi. A Bozzolo nella parrocchiale affollatissima, don Primo Mazzolari, incita i suoi fedeli a resistere ai nazisti. Così Dall’Ara descriveva quelle drammatiche ore che accompagnarono il fatidico annuncio, quello che i mantovani da sempre definirono come “l’arbaltùn” (il ribaltone). La città fortezza La città si mostrava ancora come ai tempi austroungarici, quando era stata trasformata nella “piazzaforte militare del quadrilatero”. Nello spazio limitato dai laghi, che di fatto avevano bloccato ogni sua possibile urbanizzazione, il suo ampliamento rimaneva ancora confinato tra gli spazi delle antiche mura gonzaghesche. Tuttavia, in quella circoscritta superficie esistevano almeno una dozzina di caserme, alcune anche di considerevoli dimensioni; in più altri di- sparati presidi militarini. Quanti erano i soldati italiani accasermati in quei giorni? Arduo un calcolo verificabile delle forze presenti alla firma dell’armistizio: è stata fatta la cifra di 10.000 uomini, però puramente ipotetica. Le forze armate germaniche I tedeschi […] fidandosi poco dell’alleato italiano, avevano già predisposto l’”Operazione Alarico” che prevedeva l’occupazione della penisola in situazioni d’emergenza. La caduta del fascismo ne aveva accelerata l’attuazione ed infatti Hitler aveva destinato il feldmaresciallo Erwin Rommel al comando del gruppo di armate dell’Italia settentrionale, lasciando Albert Kesserling con le armate del Sud Italia. All’8 settembre si trovavano già sul territorio nazionale almeno 18 divisioni germaniche e nella notte tra l’8 e il 9 settembre arrivarono a Mantova reparti della SS “Adolf Hitler Panzergrenadierer” che già si trovavano acquartierati tra Parma, Reggio Emilia e l’oltre Po Mantovano. Valutazioni fatalmente approssimative indicano in 25 mezzi corazzati la dotazione dei reparti della SS entrati in città. I reparti germanici iniziavano all’alba del 9 settembre, l’occupazione di Mantova, senza incontrare grossi problemi. Davanti alla caserma “Principe Amedeo”, la sera dell’8 erano state piazzate soltanto due mitragliere da 20 mm. Il 9 iniziò l’occupazione tedesca; un carrarmato Tiger da 68 tonnellate ebbe ragione in breve della postazio- ne presente alla stazione ferroviaria, ove perse la vita il capitano Renato Marabini. Anche la resistenza della caserma Principe Amedeo ebbe vita breve, colpiti a morte gli artiglieri Petrini e Zanin. … nel corso della giornata, i tedeschi completano via via l’occupazione del centro urbano, senza incontrare resistenze. La gente se ne sta barricata in casa […] il giorno 9 si è sparato qualche colpo anche dalla caserma “Curtatone Montanara” ma, vista la disparità di forze, il comandante decide di arrendersi ai tedeschi. La mattina del 10 settembre, un Tiger prende a cannonate il portone della caserma “Scalori” di Via Frattini ed altri reparti occupano la caserma “Randazzo”. Le Forze Armate Italiane, a Mantova come nel resto d’Italia ormai non esistono più e si apre un’altra pagina dolorosa e tragica: quella degli sbandati e degli uomini che cercano in ogni modo di tornare alle loro case e di quelli che non ci riescono. Già dal 10 settembre il comando militare germanico della piazza (Rittmeister Hohne) istituisce campi di concentramento di smistamento dei prigionieri italiani. […] Fin dalla prima mattina del 10 settembre, i mantovani assistono al passaggio per le strade della loro città di colonne di soldati sorvegliati dai militari germanici. L’abbondanza di strutture militari ha consentito di risolvere subito il problema dei luoghi per i campi di concentramento, così distribuiti: - Campo Ufficiali nell’impianto “casermone funzionale” a Dosso del Corso. - Campo Sottufficiali e Truppa nei capannoni ex deposito d’artiglieria fuori porta, San Giorgio, dietro il cimitero degli israeliti. - Campo Sottufficiali e Truppa nel recinto e nei capannoni della caserma del Gradaro. I prigionieri arrivavano in camion e con i treni, nel primo caso direttamente ai campi, nel secondo, percorrendo a piedi il tragitto dalla stazione ferroviaria principale, attraverso le strade del centro storico. La sorveglianza non è adeguata al numero e così più di un prigioniero riesce a fuggire, col favore della popolazione. I soldati vengono aiutati in tutti i modi possibili, dall’offerta spontanea del pane, dei viveri, a quella degli abiti civili. La mattina dell’11 settembre, una colonna di prigionieri sta passando per piazza Martiri di Belfiore. C’è gente ai lati della strada. Testimonianze parleranno di una giovane donna con la borsa della spesa al braccio che offre un panino ad un prigioniero. Si sente una raffica, la giovane donna rimane cadavere sul selciato: si chiama Giuseppina Rippa, ha 29 anni, viene da Marmirolo. Altre sventagliate di mitra uccidono soldati che tentavano di fuggire: uno in via Calvi, un altro al Gradaro, due nel campo di S. Giorgio. Dal registro anagrafico del Comune di Mantova si rileva che dal 9 al 30 settembre del 1943 vengono portati morti all’ospedale civile Carlo Poma 24 soldati italiani ma non sono indicate le cause del decesso. Per un militare del campo di San Giorgio è stato annotato “ferita in azione di guerra” per Giuseppina Rippa, il funzionario ha annotato “fucilata dalle truppe di occupazione”, dizione usata anche per don Eugenio Leoni, sacerdote arrestato nel pomeriggio dell’11 settembre e trovato morto con un colpo alla nuca. Fu ucciso dopo essere stato picchiato, perché aveva assistito alla scena di un soldato tedesco disarmato da un civile italiano, poi fuggito. Non aveva voluto rivelarne il nome. Nella canonica della sua chiesetta di S. Simone, della quale era vicario, si erano rifugiati soldati sbandati, qualcuno ancora con le armi. Pare pure fosse stato visto in borghese alla stazione ferroviaria, ad accompagnare un soldato in fuga. Fu un pericolo a cui si esposero tantissimi mantovani, rischiando la fucilazione. La mattina del 20 settembre sui muri di Mantova apparve un avviso, che dava notizia dell’avvenuta fucilazione di 10 militari italia- ni colpevoli di aver sparato su un reparto germanico in marcia, ferendo due uomini. La vera causa del ferimento derivò da una rissa avvenuta fra tedeschi e austriaci ubriachi, la- sciando immotivate le ragioni della strage. I 10 italiani in realtà furono prelevati dal campo del Gradaro col pretesto di dover far lavori di sterro. Portati in riva al lago superiore, presso l’Aldriga, furono uccisi uno ad uno, obbligando via via i superstiti a trascinare il corpo del compagno nella fossa fatta loro scavare. Testimonianze oculari affermarono questa orrenda pagina di ferocia. I corpi dei 10 soldati rimasero sepolti in quel luogo fino al 1945. Già nei giorni immediatamente successivi al 10 settembre, un numero consistente di prigionieri alleati (statunitensi, britannici, neozelandesi, australiani, francesi, indiani) vennero concentrati nello stadio comunale (l’attuale Danilo Martelli) altri al Gradaro. Difficile indicare con esattezza la dimensione dei lager mantovani dal settembre 1943 all’aprile del 1945. Il campo che rimase attivo sino la fine della guerra fu quello del Gradaro gli altri due smisero di funzionare già dalla fine del 1943. Sulla base del numero delle razioni viveri fornite dalla SE.PR.AL. soltanto nei giorni dal 12 al 19 settembre sono risultati presenti nei tre campi 153.000 prigionieri, dato certo di gran lunga inferiore alla realtà, perché il transito è stato continuo. Una cifra presumibile fa ascendere il numero dei prigionieri rinchiusi nei campi o comunque in transito a 250.000. I prigionieri non venivano dalla sola Italia. Ma anche da Albania, Grecia, Jugoslavia, Francia. Una buona parte dei prigionieri, in buone condizioni di salute, fu caricata su carri merci ed inviata verso i campi di lavoro dei lager tedeschi. L’unica alternativa che veniva offerta loro per evitare la deportazione in Germania era quella di arruolarsi nell’esercito del neonato Partito Fascista Repubblicano, costituito dal 15 settembre. Questa opportunità veniva avanzata da propagandisti fascisti, il cui accesso ai campi era garantito dalle guardie naziste. Con un simile numero di prigionieri, anche la macchina bellica tedesca, tanto collaudata, mostra qualche affanno, così, nei primissimi giorni i tentativi di fuga si moltiplicano, per tanta parte riusciti. Si scoprono condutture sotterranee dell’acqua o delle fogne, sia a San Giorgio che al Dosso e i più coraggiosi vi si avventurano. Fuori o sono attesi oppure trovano la più completa solidarietà ed assistenza dei cittadini che forniscono loro abiti, biciclette, ospitalità temporanea o li accompagnano alla stazione oppure oltre ai laghi, nonostante il bando del comando germanico che minacciava il tribunale di guerra “con pene gravissime. La generosità dei mantovani Fin dal 10 settembre, i mantovani cercano in ogni modo di aiutare i prigionieri sia quando passavano per la strada diretti ai Campi, sia dentro i Campi. Nei documenti ufficiali il vettovagliamento risulta iniziato soltanto dal 12 settembre, quando SE.PR.AL. (sezione provinciale dell’alimentazione, organo periferico del ministero dell’Agricoltura e Foreste) prepara 17.000 razioni viveri, che andranno via via crescendo fino alla punta delle 27.000 del 15 settembre. Nei primi due giorni dunque (10 -11) è soltanto la generosità della popolazione che riesce, in qualche modo ad alleviare il disagio dei prigionieri, ma questa spontanea attività di soccorso continuerà anche nei mesi successivi, poiché le razioni non risultano certo sufficienti. Cucine vengono improvvisate nella sede della Croce Rossa Italiana, in via Massari, ma si organizzano spontaneamente gruppi di donne nei quartieri popolari per portare viveri, latte, medicinali, principalmente al Gradaro, il Campo di più lunga durata. Nelle trenta testimonianze raccolte e riportate da Dall’Ara emerge unanime lo spirito di gratitudine verso la popolazione virgiliana, per come partecipò in questo generoso sforzo rivolto ai detenuti. Nel tragitto che compivano, in fila per tre, per andare dalla stazio- ne ai vari Campi, le strade erano affollate su entrambe i lati da cittadini, se un prigioniero riusciva a scappare dalla fila ed entrare tra il gruppo di “spettatori”, rapidamente veniva rivestito con diversi abiti borghesi. Alcuni di questi fuggitivi, in seguito, entrarono a far parte delle truppe partigiane. Le diverse sventagliate di mitra in aria non impedivano il ripetersi di questa prassi. Nel transito cittadino i prigionieri lasciavano in terra bigliettini col loro nome, questi venivano poi recapitati alle famiglie in modo potessero sapere dove era recluso il loro caro. Lo sparare raffiche di mitra era per i soldati tedeschi una consuetudine che si ripeteva ad ogni avvertimento, per le strade e nei campi di concentramento. Verso i camion che trasportavano i reclusi ed al di là delle recinzioni dei campi, venivano gettatale notevoli quantità di pane, salumi, e diversi generi alimentari, quando fu permesso l’accesso ai campi, c’era anche chi portava grandi pentole di minestra. Un’altra possibilità di “fuga” era quella disciplinata dal “certificato di malattia” che dava l’inabilità all’attività militare-lavorativa. Particolarmente interessante la testimonianza di Vittorio Scaffidi (classe 1908 di Palermo) medico militare trasferito dal Campo del Gradaro all’Ospedale di Mantova con attribuzioni sanitarie. Nel suo racconto parla di come venivano assegnati ai detenuti, con magnanima eccedenza, attestati di malattia, in modo da potergli evitare il trasferimento in Germania, o addirittura consentirgli il ritorno a casa. Per fortuna i medici tedeschi preposti: o erano incapaci o talvolta piuttosto magnanimi. Il racconto è confermato da altre testimonianze da parte di persone che operarono in quell’ambito. Addirittura viene detto che talvolta furono appositamente praticate punture per provocare una febbre che avrebbe impedito la deportazione nei giorni successivi. I Vigili del Fuoco Alla fine di questo racconto non può mancare un paragrafo dedicato a come i pompieri mantovani affrontarono quelle drammatiche giornate. Nonostante il caldo che faceva in quei giorni, i reclusi ne trascorsero uno intero senza che venisse fornito loro alcun supporto. Nei giorni successivi fu affidato ai Vigili del Fuoco il compito di rifornire d’acqua i campi di prigionia. Ovviamente però il loro compito non si limitò solo a questo. Giuseppe Macchi (di Legnano 1920) racconta di aver affidato ad un pompiere il compito di avvisare i suoi famigliari. Walter Gervasi (di Parma, imprigionato a Casalmaggiore il 9 settembre) racconta: Ma i benemeriti pompieri ci furono molto utili per informarci che ai piedi di un acquedotto, che sovrasta il campo, v’era un tombino entro il quale scorreva un tubo di eternit che aveva il suo termine in un fosso fuori dal campo in cui eravamo rinchiusi. Da quel tubo, in pochi giorni, fuoriuscì un’enorme numero di prigionieri che poi si disperdevano tra per le campagne. Accortisi dei fuggitivi i tedeschi dapprima spararono nei condotti, poi lanciarono delle bombe, con esito drammatico di chi in quel momento li stesse percorrendo”. Il racconto più significativo rimane comunque quello di Osvaldo Filipputti, Vigile del Fuoco di Mantova, (ultimo dei 30 racconti): Subito dopo l’8 di settembre 1943, venivo adibito alla guida dell’autobotte con la quale portavo acqua al campo di San Giorgio. Entrando nel campo, nonostante il caldo che faceva, avevo indosso due tute da vigile del fuoco. Mentre la cisterna veniva vuotata, mi toglievo una tuta e la passavo ad un prigioniero che la indossava, sedendosi poi accanto a me in cabina. Così ce la faceva a passare. Avrò portato fuori con questo sistema 7 - 8 prigionieri. Una volta ho portato fuori un prigioniero senza saperlo. Tornando con l’autobotte vuota, in piazza Sordello ho sentito battere. Mi sono fermato e qualcuno gridava: “Non mettete l’acqua che mi affogate!” Dentro c’era un prigioniero, l’ho accompagnato in vicolo Cappuccine, là le donne gli hanno dato abiti civili. Questi racconti per me hanno un significato particolare, perché sono nato e cresciuto in quel rione, a non più di 200 metri dal Campo di concentramento del Gradaro. Nonostante la guerra fosse finita da più di 10 anni, da piccolo, quelle storie erano estremamente presenti e vive nei racconti di tutta la gente che abitava in quelle case, e li sento tuttora come qualcosa di mio. |