La struttura urbana e i suoi rischi d'incendio.
di Michele Sforza
L’incendio costituiva a tutto il secolo xv una costante e grave minaccia che incombeva sull’incolumità dei centri abitati, sia per l’addossamento delle case tra loro, che per l’impiego di materiali altamente infiammabili, quali il legno e la paglia, diffusamente utilizzati nella costruzione delle case. L’uso di questi materiali, facilitato dalla loro abbondanza e dal loro semplice impiego, era giustificato dalla necessità di far fronte al massiccio inurbamento a cui erano sottoposte le città del periodo. Solo nel caso che gli edifici fossero di notevole importanza strategico-militare, di potere e di culto, dava loro la possibilità di essere edificati con materiali diversi dal legno e dalla paglia come pietre e mattoni[1].
L'assenza di una minima normativa edile, dava ampio spazio all’iniziativa dei singoli cittadini che troppo spesso prevaricava sulle libertà degli altri; era infatti un costume comune edificare o depositare ogni genere di cose sugli spazi pubblici e privati rimasti liberi. Non mancavano le disposizioni comunali, purtroppo non sempre osservate, per limitare il fenomeno: Item quod nullus teneat vies publicas impeditas lapidibus vel lignaminibus lateribus ut lignamine, ultra tridinum postquam ibi posita fuerit supradicta[2]. La situazione di Torino, che terremo come filo conduttore per tutto il testo, può dirsi questa; infatti dall’analisi dei suoi Statuti del 1360, risulta come una città il cui territorio è «ampiamente compenetrato e immerso nella campagna circostante e nelle attività ad essa legate»[3], situazione questa generatrice di problemi civici, igienici e di sicurezza[4]. E interessante a questo proposito far riferimento alla descrizione forse un po’ colorita ma emblematica, fatta da Luigi Cibrario: La nettezza della città avrebbe senza dubbio potuto contribuire a tener lontano il morbo fatale; ma chi volesse trasportarsi con il pensiero cinque secoli addietro, e considerare qual era la via principale di Dora Grossa, che cominciava poco sopra a S. Dalmazzo, e finiva a Piazza Castello avrebbe veduto una strada tortuosa, fiancheggiata da case piccole ed ineguali e qua e colà da portici coperti di paglia, avrebbe veduto la torre del comune e la chiesuola di S. Gregorio (S. Rocco) i siti ingombri dai banchi immondi delle beccherie, e da quelli ancora più fetenti del mercato dei pesci. Il suolo delle strade non selciato, sebbene a qualche palmo sotterra vi fosse il lastricato romano; e però sempre pieno di fango e di lordure; uscir dalle case nella via, i canali dei cessi, prima scoperti, poi coperti di mal connesso tavolato; mandre di porci senza custode vaganti liberamente per la città [...] Non parlo dei banchi posti fuor dalle botteghe, e dei padiglioni distesi sovr’essi, che impedivano la via già troppo angusta[5]. Questa realtà era sicuramente riscontrabile in altri comuni minori e non; persino Parigi, la più grande città europea del medioevo, lamentava gli stessi problemi. Il compiacimento, che sembra pervadere il Cibrario nel descrivere le condizioni della Torino del secolo XIV, non deve indurre il lettore a credere che allora tutto fosse così precario ed approssimativo. Si prenda ad esempio la situazione degli ospedali nel Medioevo, che erano già numerosi e sufficientemente distribuiti anche nei centri minori fin dal secolo XI; alcuni di essi poi erano addirittura specializzati nella cura di particolari malattie[6]. Era inoltre sintomatico, per il periodo da noi preso in considerazione, che molte delle attività umane, che vanno da quelle commerciali[7] a quelle private[8], si svolgessero tranquillamente in strada, favorite anche dalla protezione, in caso di intemperie, offerta dai portici e dai balconi sporgenti. L’opera di bonifica del territorio cittadino, intrapresa dal comune di Torino, e volta verso la ricerca di una migliore situazione sia igienica che di prevenzione agli incendi, pur tra mille difficoltà e interruzioni, venne iniziata a partire dal secolo XIV, facendo così denotare un atteggiamento meno passivo ma più responsabile per tutto ciò che concerneva la sicurezza cittadina nei confronti della terribile piaga degli incendi. Così nel 1230 fu allargata la strada nel mercato della caligaria rimovendone i banchi dei negozianti, con espropriazione o rivendicazione del suolo per utilità pubblica e successivo indennizzo mediante concessioni a favore dei prima espropriati; e nel 1257, con lo stesso sistema di esproprio e di compenso [...] venne aperta una strada — larga, bella e spaciosa — (lata, spaciosa et ampla) lungo le cerchia delle mura, abbattendosi tutte le costruzioni, addossate ad esse[9]. Risulta che fin dal 1326 il comune di Torino emanò dei provvedimenti, seppur rudimentali, per fronteggiare un evento così tragico e ricorrente quale l’incendio. L’attuazione e il rispetto di essi però furono costantemente rallentati per la scarsa disponibilità delle già esangui casse cittadine continuamente messe a dura prova[10] da le guerre incessanti dei Savoia, particolarmente nella regione Cisalpina, mirarono soprattutto a limitare la potenza dei Monferrato e dei Visconti e ad estendere l’area di influenza sabauda nei territori piemontesi ad essi soggetti[11]. Inoltre con l’emanazione di alcune disposizioni contenute negli Statuti del 1360, il comune vietò la costruzione di portici in legno e paglia lungo la «strada pubblica», oggi via Garibaldi[12]. Questo provvedimento potrebbe essere visto come una prima forma di prevenzione agli incendi. Gli effetti di queste disposizioni si ebbero alcuni decenni dopo, quando: All’inizio del Quattrocento [...] cominciano a ricorrere nelle delibere del consiglio comunale le richieste, da parte di privati cittadini, di licenze edilizie per costruzioni articolate, dotate di portici in muratura, a più piani e con loggiati. Nel 1405 è il «dominus» Ribaldino Beccuti a chiedere il permesso per costruire una casa sul mercato con volte porticate sotto cui collocare banchi adibiti alla vendita: si tratta con tutta probabilità di un edificio con caratteristiche tipologiche particolari, poiché lo si trova descritto accuratamente nel catasto del 1415. Nel 1420 un altro cittadino, Tommaso Ruata, chiede di erigere dei piloni in muratura sempre sulla piazza del mercato, a somiglianza di quanto ha fatto un suo vicino; qualche mese più tardi un altro confinante, Michele Belliodi alias Marzandini, ottiene di ingrandire la casa appena acquistata erigendo «pillonos, votas, fenestras et quadam lobiam in solario artiori qui pilloni et vote fiant per rectitudinem pillonorum Thorne Ruate»[13]. Però questi processi di trasformazione delle strutture edili richiedevano grossi sforzi economici da parte dei singoli cittadini, come da parte delle istituzioni pubbliche, con tempi di realizzazi0ne lunghissimi. Le maggiori difficoltà, per far fronte alle disposizioni comunali in materia di ristrutturazioni, naturalmente provenivano dalle classi sociali meno abbienti, «tanto che ad esempio nel 1464 il consiglio concede una proroga a “plures laboratores et agricole huius civitatis”, i quali non possono acquistare tegole per le loro case coperte di paglia»[14]. Un’altra chiave di lettura del mutamento dei criteri costruttivi, può essere fornita dalla tassazione di materiali quali le tegole e i mattoni che il comune di Torino attuò a partire dal 1377. La tassazione di uno o più prodotti è giustificabile solo se di questi prodotti se ne fa largo uso. È possibile, quindi, ritenere che dalla suddetta data, o giù di lì, siano iniziate le costruzioni in muratura su una scala più ampia che nel passato. Segno evidente questo di un graduale abbandono di quei materiali facilmente infiammabili per altri più robusti e sicuri. Uscendo fuori dai nostri labili confini nazionali, diamo uno sguardo alla situazione della vicina Svizzera e precisamente a Lubecca che nel 1276 impose anch’essa l’utilizzo di materiali non infiammabili per la costruzione di nuove case. Non ci è dato di conoscere l’esito di questi provvedimenti, ma conoscendo la solerzia degli svizzeri in fatto di norme civiche, è possibile ritenere che le norme impartite siano state sufficientemente osservate. Andando ancora più a nord troviamo che anche Londra nel 1189 prima, e nel 1212 poi, impose dei provvedimenti del tutto simili, ordinando di rendere i tetti di paglia inattaccabili dal fuoco tramite lo stendimento di uno strato di intonaco. È evidente quindi che i comuni del periodo, non disponendo di risorse tecnologiche e di adeguati organismi atti a fronteggiare il fuoco, davano estrema importanza a queste primitive forme di prevenzione dal fuoco. È vero che a ben poco potevano servire tali disposizioni, sia perché disattese dalle cittadinanze, sia perché rappresentavano una goccia nel mare, a fronte di una situazione di pericolosità ben più generalizzata; rimane però valido l’apporto dato da queste archetipe norme che sono servite da base per una ricerca di forme di prevenzione molto più funzionali e veramente utili. Hanno il pregio di essere servite sicuramente da stimolo a fare di più e meglio. Fu comunque giocoforza per tutti i comuni a mobilitarsi, anche perché spinti dalle continue richieste di indennizzo avanzate dai proprietari delle case bruciate; la Signoria di Venezia ad esempio nel 1344 sostenne la ricostruzione delle case bruciate tramite un esborso di duecento ducati per ogni proprietario che avesse subito un danno. Lo stesso poteva dirsi per Torino dove «un torinese a cui ardesse la casa veniva ristorato dal comune»[15]. La situazione quindi, perlomeno negli intenti, continuava ad evolvere; la nuova volontà degli amministratori comunali traspare anche dalle ordinanze emesse, che obbligavano chiunque a sostituire la paglia dei tetti con le tegole, laddove le strutture esistevano da prima del 1360. L’inosservanza di dette ordinanze dovette essere consistente, se lo stesso comune fu indotto più volte a reiterarle. Il primo provvedimento di questo tipo fu sicuramente quello del 1427[16], e ripetuto quattro anni dopo; questa volta però il comune affidò la sua pubblicizzazione ad un banditore, figura difficilmente ignorabile, quasi a voler ricordare ai cittadini riottosi che non potevano più fingere di non conoscere l’esistenza di queste «nuove» disposizioni. I banditori circolando per le strade della città accompagnati dal rullare dei tamburi, rendevano noto che entro tre anni gli inadempienti avrebbero dovuto regolarizzare la loro posizione in merito[17]. Dieci anni dopo però la situazione non dovette essere mutata di molto (fatto facilmente prevedibile), tanto da costringere gli amministratori comunali a prendere decisioni drastiche come quella di minacciare i cittadini indisciplinati con severe multe, sino all’abbattimento di quelle strutture non ancora in regola. La verifica venne affidata a quattro persone di provata esperienza e di fiducia. Nel contempo si raccomandava ai «fornaciari» di confezionare coppi e mattoni di buona qualità, e soprattutto di farli «ben cotti». Il rischio di dover pagare i dieci fiorini di multa e di vedersi abbattere il tetto di casa non impensierì ancora gli incalliti trasgressori se alcuni anni dopo, e precisamente nel marzo del 1448, il comune [...] bandì, che tutti quelli che avessero case, portici, tettoie, porcili coperti di paglia o strame entro la cerchia della città, dovessero sostituirvi in breve termine altra materia, a pena di sessanta soldi viennesi. Altri provvedimenti presi, sempre nell’ambito della lotta agli incendi, furono quelli di porre delle vedette sulle torri e sui campanili delle chiese e di istituire nel contempo, dei servizi di pattugliamento notturno eseguiti da soldati con compiti di perlustrazione e di sorveglianza[18]. Nel 1333 il comune di Torino ne pose alcune sul campanile della chiesa di Sant’Andrea[19], quando ancora non esisteva la torre comunale la cui costruzione avvenne attorno al 1375, ed altre ancora sul campanile di Santa Maria di Stura, nei pressi dell’omonimo ospedale, poco distante dalla città. Risiedendo stabilmente sulle torri, i custodi avevano il compito di sorvegliare continuamente, sia di giorno che di notte, il territorio cittadino e quello contiguo ad esso. Sul campanile di Sant’Andrea, su quello del Duomo, sulla torre del comune, sul palazzo de’ Beccuti, più elevato degli altri poneasi vedette. Altre collocavansi sul campanile della badia di Stura a spese dell’abate, sul palazzo di Lucento, nella torre di Mischie (posta in mezzo ad un bosco, sul colle in ver S. Mauro), sul campanile di Sassi, sulla torre di Pozzo di Strada. Infine dirizzavansi bicocche, vale a dire guardiole di legno, erette sopra gli alberi, o innalzate su pali e cinte d’un fosso, [...] de’ quali con segni di bandiere, di fumo o di fuoco davano ragguaglio le vedette esterne alle interne, e più lontane alle più vicine. Questo servizio costava al comune di Torino nel 1433, una spesa di 32 fiorini l’anno per ogni custode. In caso di incendio, non mancavano le azioni repressive volte a punire coloro i quali li provocavano con dolo, delitto considerato gravissimo al pari degli omicidi e dei tradimenti. La gravità del gesto compiuto determinava naturalmente la pena comminata ai trasgressori delle disposizioni, secondo quanto riportato sempre dagli Statuti Torinesi del 1360[20]. L’incendiario poteva essere addirittura mandato al rogo se colto in flagranza di reato. La pena capitale colpiva, ugualmente chi avesse posto volontariamente l’incendio nell’abitato — città o sobborghi —. Se invece l’incendio fosse stato appiccato solo a fieno od a biada, nei campi, la pena ridiventava pecuniaria, duplicata se il fatto fosse avvenuto di notte; ma chi non pagasse il hanno e non emendasse il danno recato, aveva mozza una mano. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- [1] Le costruzioni più ricche ed importanti venivano sovente edificate anche con materiali provenienti dalla spoliazione delle rovine degli antichi edifici greci e romani. [2] D. Bizzarri, Gli Statuti del Comune di Torino del 1360, BSSS CXXXVIII, Torino 1933, p. 120, rubr. CCLXXXV: [Parimenti riguardo al fatto che nessuno tenga occupate le vie pubbliche con pietre con legnami o con mattoni, oltre tredici giorni dopo che qui saranno state poste sopra dette]. [3] A. Settia, Ruralità urbana: Torino e la campagna negli Statuti del Trecento, in AA.VV., Torino e i suoi Statuti nella seconda metà del Trecento, Archivio Storico della Città di Torino, 1981. [4] ARCHIVIO STORICO DELLA CITTÀ DI TORINO, (da ora solo più ASCT), Ordinati, vol. 70, c. 90, verbale del 24 agosto 1442: «Si riserbò a provvedere acciò la paglia sia trasportata fuori delle mura della città, sinché siasi portato coi membri del Consiglio del Principe del quale emani l’ordine. Si proibì l’accender fuoco negli angoli e nei luoghi pubblici». (Qui e di seguito è citato il sunto del provvedimento deliberativo contenuto nell’India Lessona conservato in ASCT). [5] L. Cibrario, Storia di Torino, Fontana, Torino 1846, I, p. 391; la via di Dora Grossa — oggi via Garibaldi — doveva il suo nome al canale che l’attraversava per tutta la sua lunghezza; l’acqua trasportata proveniva dalla Dora. [6] Firenze nel 1200 disponeva di ben mille posti letto su una popolazione di circa novantamila abitanti. Breslavia, in Germania, nel Quattrocento possedeva quindici ospedali, uno ogni duemila abitanti. Altrove la situazione non era molto difforme, anche centri minori come Biella, Asti, Bra, Alba, Vercelli, Susa e la stessa Torino, possedevano degli ospedali. A Sant’Antonio di Ranverso, un borgo rurale situato sulla strada che conduce in Francia, nei pressi di Rivoli, esisteva un ospedale per giunta specializzato nella cura del fuoco di Sant’Antonio. Dell’ospedale rimane tuttora la bella facciata e il prezioso portale gotico dell’ingresso principale, integrata nel muro perimetrale di una cascina. Una simile situazione ospedaliera, e con un così alto numero di posti letto, potrebbe essere paragonabile a quella delle società più evolute dei giorni nostri. Cfr. A. Viscardi e G. Barni, L’Italia nell’età comunale, Utet. Torino 1980, pp. 490/93. [7] l commercianti preferivano vendere i loro prodotti in strada a causa della scarsa illuminazione dei loro locali che valorizzava poco le merci esposte. Anche per il luridume prodotto da certe attività lavorative si preferiva l’esterno, così facendo si manteneva una relativa pulizia negli spazi interni propri. [8] Anche i privati vedevano la via pubblica come il prolungamento delle loro anguste e buie case. Fredde d'inverno e calde d‘estate, non invogliavano di certo la permanenza. Nelle stagioni calde era normale cucinare e consumare i pasti all'aperto. [9] T. Rossi e F. Gabotto, Storia di Torino, Tipografia Baravalle & Falconieri, Torino 1914, I, p. 366; per «caligaria» si intenda «calzature». [10] Anche l’inefficienza del sistema finanziario perseguito dal comune era causa di ristrettezze economiche. Altre città nello stesso periodo erano dotate di sistemi più avanzati e funzionali, sia per quanto riguardava l’esazione delle tasse e delle gabelle, sia per la gestione degli stessi fondi. Cfr. S. A. Benedetto, Problemi finanziari per l’acquisto e la manutenzione delle «domus comunis Taurini» nei secoli XIV e xv, in AA.VV., Il Palazzo di Città a Torino, Archivio Storico della Città di Torino, Torino 1987. Inoltre Torino non ha battuto almeno fino al secolo XIII una propria moneta, pertanto ricorreva all’uso di monete provenienti da altre città come Susa, Asti. Cfr. Rossi e Gabotto, Storia, cit., p. 367. [11] R. Roccia, L’organizzazione militare nella Torino del XIV secolo, in AA.VV., Torino e i suoi Statuti nella seconda metà del Trecento, Archivio Storico della Città di Torino, Torino 1981, p. 39; cfr. inoltre Cibrario, Storia cit., II, p. 751: «E il non lungo periodo d’una oscura indipendenza, la sua fama non era molto cresciuta; e certo era città assai piccola intorno alla metà del secolo XVI quella che aveva da 1.400 passi di giro, e un popolo di circa 10.000 anime. Ma sebbene d‘allora in poi il Piemonte sostenesse pressoché continue guerre contro la prepotenza straniera, comunque si battezzasse o dall’Ebro o dalla Senna o dal Reno». [12] Bizzarri, Gli Statuti cit., p. 112, rubr. CCLVI. «De porticibus pendentibus in strata non cooperiendis paleis. - Item statutum est quod nulla porticus pendens in strata publica, videlicet a porta Phibellona usque ad portam Secusinam cooperiantur vel coperta maneat paleis. Et quicumque contrafecerit vel ipsas paleas infra octo dies a tempore publicationis non inde amoverit, solvat pro pena solidos duos, ab inde in antea pro qualibet die qua cessaret in eis removendis, denarios» [I portici pendenti su strada non devono essere coperti dalla paglia. — Parimenti fu stabilito riguardo al fatto che nessun portico pendente deve essere tu' una strada pubblica, cioè a dire la porta Fibellona sia ricoperta fino alla porta Secusina o resti coperta con la paglia. E chiunque avrà fatto il contrario e avrà rimosso la stessa paglia entro otto giorni dal tempo della confisca e non oltre, paghi come pena due interi soldi con ogni mezzo, dal tempo antecedente il giorno per cui indugiasse nel rimuoverli]; p. 120, rubr. CCLXXXIV; «De rianis exentibus in viis publicis cooperiendis. - Item quod omnes rione exeuntes in viis publicis coperiantur et coperte teneatur de assidibus» [Le travi uscenti nelle vie pubbliche devono es. sere coperte. - Parimenti per quanto riguarda tutte le travi uscenti nelle vie pubbliche siano ricoperte e siano tenute coperte da assi]; cfr. inoltre M. T. Bonardi, Torino basso medievale: l’affermazione della sede comunale in un tessuto urbano in evoluzione, in AA.VV., Il Palazzo cit., I, p. 28. [13] Ibid., pp. 28—30; Ribaldino Beccuti, un ricco e potente cittadino torinese, fu dal 1397 il primo signore del feudo di Lucento, borgo poco lontano da Torino; cfr. D. Rebaudengo, Lucente, un castello e' suoi contorni, Edizioni Point Couleur, Torino 1984. [14] Bonardi, Torino, cit., p. 36. [15] Cibrario, Storia, cit., pp. 349-93; per «ristorare» si intenda «risarcire» il danno subito. Cfr. ASCT, Ordinati, vol. 70, c. 25, verbale del 9 maggio 1441, in cui si parla «di soccorso agl'incendiati». [16] ASCT, Ordinati, vol. 64, c. 42, verbale del 10 aprile 1427: «Si elessero sapienti a visitare le case coperte di paglia ed ordinare che siano di tegole per evitare il fuoco». [17] ASCT, Ordinati, vol. 66, c. 10, verbale del 15 febbraio 1431: «Si ordinò siano tutte le case coperte di tegole»; ed ancora, Ordinati, vol. 68, c. 47, verbale del 7 ottobre 1434: Si provvide acciò le case coperte di paglia lo siano di tegole». [18] La segnalazione di eventuali incendi era sicuramente affidata alle dodici pattuglie già aventi funzioni di controllo del territorio cittadino da probabili attacchi nemici, e di controllo del coprifuoco; cfr. Asor, Ordinati, vol. 5, c. 90, verbale del 26 ottobre 1333. [19] Dell‘antica chiesa di Sant'Andrea rimane ancora il bel campanile romanico edificato nel secolo XI. La sua altezza è di quaranta metri, e si trova adiacente al Santuario della Consolata. [20] Bizzarri, Gli Statuti cit., p. 72, rubr. CXLIV. «De pena illius qui poneret ignem in nemoribus alienis sine domini voluntate prope civitatem per septem miliaria. — Item si quis ignem posuerit in nemoribus alienis sine domini voluntate prope civitatem per VII. miliaria, que memora pertineant ad aliquem civem Taurini, ammittat pedem vel manum, nisi illum vel illam redemerit de solis centum et dampnum restituat. Si vero aliter ignis evaserit de suo in alienum culpa ipsius ignem ponentis solvat pro hanno solidos viginti, et nichilominus dampnum emendet sine libello et iuditiorum strepitu in extimatione honorum hominum» [La pena di colui che appiccasse il fuoco nei boschi altrui senza la volontà del signore vicino la città per sette miglia. - Allo stesso modo se qualcuno avrà appiccato il fuoco nei boschi altrui senza il volere del signore quasi per sette miglia, i quali boschi si estendino fino alla città di Torino, perda il piede e la mano, se non quello sia ricambiato sull’intera somma, risarcisca anche cento volte il danno. Se in vero, diversamente, il fuoco avrà invaso dal proprio territorio nell'altrui per colpa dello stesso che seda il fuoco, paghi come risarcimento venti soldi interi e nessuno richieda il danno senza l’accusa e senza il fragore degli ind1z'iati nella buona opinione degli uomini probi]; p. 97, rubr. CCXIII: «De pena filius qui malo animo ignem imposuerit in civitate vel in burgis. — Item si quis malo animo ignem posuerit in civitate vel burgis vel suburgis seu circuitu civitatis in dominibus seu tectis, comburatur et de bonis eiusdem dampnum restituatur, nec aliqua pecuniaria quantitate possit evadere. Idem locum habeat contra illos qui ignem ponerent in Grugliasco. [La pena di colui che avrà appiccato il fuoco con animo malvagio nella città o nei borghi. - Parimenti se qualcuno con animo malvagio avrà dato fuoco in città o nei borghi o nei sobborghi sia in giro nei domini della città sia nelle case, sia arso e sia risarcito il danno con i beni di costui né possa sfuggire con qualche quantità di denaro. Parimenti la pena abbia luogo contro quelli che appiccassero il fuoco in Grugliasco]; p. 103, rubr. CCXXXII: «Atrocia malefitia intelligentur homicidia, incendia, furta magna, tractatus mali de domino comite vel de civitate Taurini» [Saranno resi noti le atrocità, i misfatti, gli omicidi, gli incendi, i grandi mali, gli uomini pericolosi saranno trascinati via volentieri dal padre o dalla città di Torino]; p. 104, rubr. CCXXXVI: «In Taurino, vel vince seu bleva fuerint vastate furtive sive privatim, vel ignis positus fuerit furtive in Taurino vel eius poderio [...] et restituantur de avere comunis Taurini illis personis seu illi persone quibus vel cui data fruissent dampna seu dampnum» [In Torino, o le vigne o le biade siano state devastate furtivamente ossia privatamente, o sia stato appiccato il fuoco furtivamente a Torino o nel proprio podere [...] siano restituiti dagli averi comuni di Torino a quelle persone o a quella persona ai quali 0 alla quale fossero stati arrecati i danni o il danno]. Cfr. ancora a p. 97 la rubr. CXLIV, presso ASCT. |