Testimonianza di Nicola Colangelo.
UN’EREDITA’ INESTIMABILE ED IMPEGNATIVA PER TUTTI
Ciò che hai ereditato dai padri / conquistalo per possederlo». Questi versi del Faust di Goethe illuminano il concetto autentico di “eredità”: un capitale da far fruttare e non già un patrimonio inerte da custodire; una tradizione in cui riconoscersi e non un canone cui adeguarsi per conformismo; un valore da vivere e conquistare e non già un feticcio da omaggiare. Le persone, le storie, le cose ci fondano e ci identificano: noi siamo loro e loro sono noi; nel bene e nel male, volenti e nolenti. Pertanto, conoscere i padri – o, sul piano personale, il padre, il maestro – è necessario sia per accettarli sia per superarli: per amarli o per ucciderli. L’eredità esige un atto di conoscenza, da parte di tutti, e soprattutto da parte di coloro che intendono sottoporla al vaglio della discontinuità, dell’antagonismo, della negazione. Dell’eredità – sia essa storica o culturale, politica o personale – tutti detengono le azioni. Non tutti sanno farle fruttare. Di qui, fra l’altro, la positività e nobiltà della parola servator (“amico della tradizione”) rispetto a novator (“nemico della tradizione”): un recupero non solo linguistico ma anche politico e morale, soprattutto in giorni nei quali rivoluzionaria sembra soprattutto la cura della legge, delle istituzioni, dei valori costituzionali. Conoscenza, accettazione ed eventualmente rifiuto dell’eredità. Senza nostalgie né rancori; ma con lo sguardo e con i passi già rivolti al futuro, con-
sapevoli che siamo al mondo per conoscerlo, cambiarlo, possederlo; e che «ogni mattina, quando si leva il sole, inizia un giorno che non ha mai vissuto nessuno» (David Maria Turoldo). La storia che noi cerchiamo e studiamo è preziosa come una grandiosa eredità.
COL PASSATO ALLE SPALLE ED IL FUTURO PER MANO
Più il tempo passa, più mi avvicino alla nostra storia con attenzione, con delicatezza in certi casi con devozione.
Chi studia la storia deve calarsi nelle condizioni del tempo in cui i fatti si svolgevano, deve come si suol dire, contestualizzare gli accadimenti e questo è un lavoro difficile da eseguire.
Occorre valutare i fatti cercando di stare lontani il più possibile da pregiudizi e quindi esaminare con attenzione ciò che si studia, approfondire gli eventi e soprattutto cercare di conoscere profondamente i protagonisti.
Se poi si tratta di uomini speciali come quelli che ci hanno insegnato ad impe-
gnarci in questa straordinaria missione bisogna considerarli con molto rispetto.
Il Corpo, questa straordinaria organizzazione a cui apparteniamo e che è l’oggetto continuo nelle nostre riflessioni, della nostra attenzione e, diciamolo, anche nel nostro amore, è una realtà complessa e straordinaria.
Il Corpo non celebra i suoi eroi; a volte penso che non ne ha bisogno perché, se sono esistiti tanti personaggi di riferimento, spesso sconosciuti ai più, il valore, ossia ciò che con termini molto impegnativi chiamiamo eroismo, abnegazione ed onore sono collettivi cioè appartengono a gruppi di persone collettivamente impegnate ed umanamente motivate. A noi il compito di cercare anche le negatività, le disfunzioni, le colpevoli negligenze, tanto più gravi in quanto direttamente riconducibili a chi doveva assicurare al popolo un servizio imposto da un categorico imperativo, a chi , tradendo un impegno politico, ha usato il Corpo e lo ha umiliato.
La storia che noi cerchiamo e studiamo è preziosa come una grandiosa eredità.
I GIORNI DEL TERREMOTO IN IRPINIA
Domenica 23 novembre 1980, verso le 20:00 sentimmo dalla televisione le prime notizie.
Dopo circa un’ora si poteva cogliere, dal modo con cui venivano trasmesse le informazioni, la gravità dell’evento.
Disposi l’allarme per le sezioni operative e per quelle dei mezzi speciali del comando e chiamai subito l’ispettore regionale che era in attesa di ordini dal ministero.
Verso le 23 giunse la disposizione per la partenza alle ore 24.
Gli uomini erano già pronti e tutti provavamo quella emozione collettiva e coinvolgente che si concretizzava nel forte desiderio di voler essere già sul disastro. A ore 00:00 del 24, dopo la consegna dei viveri per l’emergenza, meglio non ricordare, ed il denaro per eventuali esigenze particolari, le squadre partirono.
Gli ordini prevedevano dapprima la sosta all’area di servizio Modena nord per attendere le squadre delle altre province della Lombardia. Successivamente il luogo di concentramento venne spostato a Bologna, area di servizio Cantagallo.
Dai contatti via radio con i capi equipaggio si potevano cogliere sempre più sentimenti di rabbia ed inquietudine. Occorreva infatti attendere l’arrivo delle squadre di Sondrio e Varese. Queste ultime comprendevano le sezioni logistiche. A metà mattinata del 24 la colonna ormai completa si mosse. Tempi di percorrenza terribilmente lunghi. Gli automezzi più impiegati erano gli ACT Fiat 639, velocità massima 67 km all’ora ed i variegati mezzi della logistica che si rivelarono poi inadatti alla marcia fuori strada.
Nel pomeriggio la colonna giunse A Roma Capannelle, per sostare alcune ore alle Scuole centrali antincendi.
Alle 20 riparti per giungere ad Avellino durante la notte.
Gli uomini poterono iniziare ad operare nella tarda mattinata del 25, esausti. Sfiniti e demotivati dalle estenuanti attese, non era stata concessa loro neanche un’ora di riposo.
Erano inquieti per l’inattività così a lungo protrattasi, mentre le informazioni rappresentavano l’enorme gravità del sisma.
Venne ordinato di operare nel territorio di Conza della Campania, e trovarono la totale distru-
zione dei fabbricati. Castelnuovo di Conza era stato raso al suolo.
In una situazione tecnico logistica molto precaria le squadre di Mantova riuscirono ad effettuare i primi salvataggi, recuperando fra le macerie diversi sopravvissuti, mentre erano esposte a gravissimi rischi per il ripetersi di violente scosse.
L’organizzazione insufficiente degli interventi non era stata in grado di assicurare, ai reparti che dovevano operare, la indispensabile presenza di un sufficiente numero Ufficiali del Corpo, ovvero di esperti tecnici in grado di valutare a fondo i rischi delle instabilità di strutture compromesse. Ciò fu riferito dagli uomini, per fortuna diretti da esperti anziani. A tutti si dovette dare il cambio dopo solo 5 giorni dalla partenza.
È noto che nelle prime 24 ore erano stati costretti a sfamarsi con quanto si poteva trovare sul posto nelle case diroccate.
Per proteggersi dalla pioggia incessante di quei giorni dovettero indossare i sacchi di plastica per la spazzatura reperiti sul posto.
Ma è altrettanto noto che alla totale confusione gli uomini reagirono con uno slancio quasi rabbioso.
Il Presidente della Repubblica, nonostante la contrarietà del governo, volle essere presente fin nei giorni immediatamente successivi al 23 novembre ed espresse il proprio sdegno per i ritardi e la evidente disorganizzazione.
Dopo alcuni giorni, il ministro dell’interno venne costretto alle dimissioni.
Ripercorrere quelle giornate e contestualizzare gli eventi non è semplice; dallo svolgimento dei fatti emergono due realtà:
- lo straordinario slancio del personale operativo totalmente coinvolto come sempre era accaduto nelle catastrofi nazionali, reso ancora più accanito e determinato dalla gravità delle situazioni ancora in buona parte non conosciute.
- la confusa organizzazione degli interventi dal centro nazionale, unita ad una nota scarsità di mezzi e di risorse.
La prima realtà è conosciuta e fa parte di una capacità di reagire propria del carattere degli appartenenti al Corpo, essa nasceva più che da una deontologia, da una motivazione totale e da un fortissimo coinvolgimento umano.
La seconda va scritta a decenni di impegni disattesi da parte di governi che avevano omesso di dedicare ai Vigili del fuoco gli impegni più doverosi ed essenziali. È noto che l’orario di servizio del tempo di guerra (i famosi turni di 24 ore) venne modificato ben 31 anni dopo la fine del conflitto.
Per effetto di una proterva ed ottusa burocrazia ministeriale non veniva concessa ai comandi provinciali ed agli organi periferici alcuna autonomia, né tantomeno la si concedeva ai responsabili delle unità operative.
Basti considerare le disposizioni sullo spostamento delle colonne mobili.
I fatti si commentano da soli. Ricordo con grande pena quei giorni.
Dopo alcune settimane, finalmente ebbi l’ordine di raggiungere il settore in cui operava la nostra colonna mobile. Per circa un mese mi fu affidato il comando del campo Lombardia/Sicilia.
Ancora erano evidenti le carenze logistiche cui si contrapponeva l’impegno di tanti ragazzi che non si risparmiavano mai.
Non era più possibile trarre in salvo dei sopravvissuti ma ci si dedicava a compiti di una umanità dolorosa e spesso tragica, come la ricerca delle vittime e la loro pietosa ricomposizione, restituendo i corpi al alle persone care scampate alla catastrofe.
Si operava per recuperare poveri oggetti e misere suppellettili, patrimonio di una popolazione fondamentalmente povera che, con esemplare dignità chiedeva, facendosi riguardo, i nostri interventi.
Anche in quel contesto ogni impresa poteva essere rischiosa non essendo possibile impiegare autoscale o altri mezzi più moderni e sicuri.
Si doveva demolire e puntellare, ancora con il pericolo delle scosse di assestamento, con repliche a volte molto preoccupanti.
Nel nostro settore operavano alcune compagnie del genio dell’esercito della Repubblica federale tedesca, al loro confronto i nostri equipaggiamenti, soprattutto il vestiario, apparivano terribilmente inadeguati, così come la logistica.
Per chi avverte intimamente il legame con gli uomini di cui è il riferimento e di cui ha l’onore della responsabilità, certe situazioni erano motivo di una profonda umiliazione ed un costante dispiacere. Delle imprese di quegli uomini esiste una storia, raccontata con semplice generosità da loro stessi ed è raccolta in un testo che allego a questo ricordo.
Ricevemmo anche l’immancabile visita del politico di turno che venne ad elogiarci e, come da copione, a promettere, secondo una tradizione mai passata di moda.
Ma il rancore non si addice a chi della propria vita fa una missione, compiuta spesso con animo lieve, quello stesso animo che sa comprendere e condividere le amarezze altrui, non si addice a questi uomini che, anche nei momenti più difficili, sanno anche rasserenarsi per cose semplici e sanno ridere con l’ingenuità dei tempi della scuola.
A volte dopo tanti anni, mi tornano in mente e mi mancano molto i loro aneddoti e le loro conversazioni, piene di antica saggezza, e le canzoni, che cantavano mentre lavoravano per riparare un automezzo o sistemare una tenda.
Ciò che hai ereditato dai padri / conquistalo per possederlo». Questi versi del Faust di Goethe illuminano il concetto autentico di “eredità”: un capitale da far fruttare e non già un patrimonio inerte da custodire; una tradizione in cui riconoscersi e non un canone cui adeguarsi per conformismo; un valore da vivere e conquistare e non già un feticcio da omaggiare. Le persone, le storie, le cose ci fondano e ci identificano: noi siamo loro e loro sono noi; nel bene e nel male, volenti e nolenti. Pertanto, conoscere i padri – o, sul piano personale, il padre, il maestro – è necessario sia per accettarli sia per superarli: per amarli o per ucciderli. L’eredità esige un atto di conoscenza, da parte di tutti, e soprattutto da parte di coloro che intendono sottoporla al vaglio della discontinuità, dell’antagonismo, della negazione. Dell’eredità – sia essa storica o culturale, politica o personale – tutti detengono le azioni. Non tutti sanno farle fruttare. Di qui, fra l’altro, la positività e nobiltà della parola servator (“amico della tradizione”) rispetto a novator (“nemico della tradizione”): un recupero non solo linguistico ma anche politico e morale, soprattutto in giorni nei quali rivoluzionaria sembra soprattutto la cura della legge, delle istituzioni, dei valori costituzionali. Conoscenza, accettazione ed eventualmente rifiuto dell’eredità. Senza nostalgie né rancori; ma con lo sguardo e con i passi già rivolti al futuro, con-
sapevoli che siamo al mondo per conoscerlo, cambiarlo, possederlo; e che «ogni mattina, quando si leva il sole, inizia un giorno che non ha mai vissuto nessuno» (David Maria Turoldo). La storia che noi cerchiamo e studiamo è preziosa come una grandiosa eredità.
COL PASSATO ALLE SPALLE ED IL FUTURO PER MANO
Più il tempo passa, più mi avvicino alla nostra storia con attenzione, con delicatezza in certi casi con devozione.
Chi studia la storia deve calarsi nelle condizioni del tempo in cui i fatti si svolgevano, deve come si suol dire, contestualizzare gli accadimenti e questo è un lavoro difficile da eseguire.
Occorre valutare i fatti cercando di stare lontani il più possibile da pregiudizi e quindi esaminare con attenzione ciò che si studia, approfondire gli eventi e soprattutto cercare di conoscere profondamente i protagonisti.
Se poi si tratta di uomini speciali come quelli che ci hanno insegnato ad impe-
gnarci in questa straordinaria missione bisogna considerarli con molto rispetto.
Il Corpo, questa straordinaria organizzazione a cui apparteniamo e che è l’oggetto continuo nelle nostre riflessioni, della nostra attenzione e, diciamolo, anche nel nostro amore, è una realtà complessa e straordinaria.
Il Corpo non celebra i suoi eroi; a volte penso che non ne ha bisogno perché, se sono esistiti tanti personaggi di riferimento, spesso sconosciuti ai più, il valore, ossia ciò che con termini molto impegnativi chiamiamo eroismo, abnegazione ed onore sono collettivi cioè appartengono a gruppi di persone collettivamente impegnate ed umanamente motivate. A noi il compito di cercare anche le negatività, le disfunzioni, le colpevoli negligenze, tanto più gravi in quanto direttamente riconducibili a chi doveva assicurare al popolo un servizio imposto da un categorico imperativo, a chi , tradendo un impegno politico, ha usato il Corpo e lo ha umiliato.
La storia che noi cerchiamo e studiamo è preziosa come una grandiosa eredità.
I GIORNI DEL TERREMOTO IN IRPINIA
Domenica 23 novembre 1980, verso le 20:00 sentimmo dalla televisione le prime notizie.
Dopo circa un’ora si poteva cogliere, dal modo con cui venivano trasmesse le informazioni, la gravità dell’evento.
Disposi l’allarme per le sezioni operative e per quelle dei mezzi speciali del comando e chiamai subito l’ispettore regionale che era in attesa di ordini dal ministero.
Verso le 23 giunse la disposizione per la partenza alle ore 24.
Gli uomini erano già pronti e tutti provavamo quella emozione collettiva e coinvolgente che si concretizzava nel forte desiderio di voler essere già sul disastro. A ore 00:00 del 24, dopo la consegna dei viveri per l’emergenza, meglio non ricordare, ed il denaro per eventuali esigenze particolari, le squadre partirono.
Gli ordini prevedevano dapprima la sosta all’area di servizio Modena nord per attendere le squadre delle altre province della Lombardia. Successivamente il luogo di concentramento venne spostato a Bologna, area di servizio Cantagallo.
Dai contatti via radio con i capi equipaggio si potevano cogliere sempre più sentimenti di rabbia ed inquietudine. Occorreva infatti attendere l’arrivo delle squadre di Sondrio e Varese. Queste ultime comprendevano le sezioni logistiche. A metà mattinata del 24 la colonna ormai completa si mosse. Tempi di percorrenza terribilmente lunghi. Gli automezzi più impiegati erano gli ACT Fiat 639, velocità massima 67 km all’ora ed i variegati mezzi della logistica che si rivelarono poi inadatti alla marcia fuori strada.
Nel pomeriggio la colonna giunse A Roma Capannelle, per sostare alcune ore alle Scuole centrali antincendi.
Alle 20 riparti per giungere ad Avellino durante la notte.
Gli uomini poterono iniziare ad operare nella tarda mattinata del 25, esausti. Sfiniti e demotivati dalle estenuanti attese, non era stata concessa loro neanche un’ora di riposo.
Erano inquieti per l’inattività così a lungo protrattasi, mentre le informazioni rappresentavano l’enorme gravità del sisma.
Venne ordinato di operare nel territorio di Conza della Campania, e trovarono la totale distru-
zione dei fabbricati. Castelnuovo di Conza era stato raso al suolo.
In una situazione tecnico logistica molto precaria le squadre di Mantova riuscirono ad effettuare i primi salvataggi, recuperando fra le macerie diversi sopravvissuti, mentre erano esposte a gravissimi rischi per il ripetersi di violente scosse.
L’organizzazione insufficiente degli interventi non era stata in grado di assicurare, ai reparti che dovevano operare, la indispensabile presenza di un sufficiente numero Ufficiali del Corpo, ovvero di esperti tecnici in grado di valutare a fondo i rischi delle instabilità di strutture compromesse. Ciò fu riferito dagli uomini, per fortuna diretti da esperti anziani. A tutti si dovette dare il cambio dopo solo 5 giorni dalla partenza.
È noto che nelle prime 24 ore erano stati costretti a sfamarsi con quanto si poteva trovare sul posto nelle case diroccate.
Per proteggersi dalla pioggia incessante di quei giorni dovettero indossare i sacchi di plastica per la spazzatura reperiti sul posto.
Ma è altrettanto noto che alla totale confusione gli uomini reagirono con uno slancio quasi rabbioso.
Il Presidente della Repubblica, nonostante la contrarietà del governo, volle essere presente fin nei giorni immediatamente successivi al 23 novembre ed espresse il proprio sdegno per i ritardi e la evidente disorganizzazione.
Dopo alcuni giorni, il ministro dell’interno venne costretto alle dimissioni.
Ripercorrere quelle giornate e contestualizzare gli eventi non è semplice; dallo svolgimento dei fatti emergono due realtà:
- lo straordinario slancio del personale operativo totalmente coinvolto come sempre era accaduto nelle catastrofi nazionali, reso ancora più accanito e determinato dalla gravità delle situazioni ancora in buona parte non conosciute.
- la confusa organizzazione degli interventi dal centro nazionale, unita ad una nota scarsità di mezzi e di risorse.
La prima realtà è conosciuta e fa parte di una capacità di reagire propria del carattere degli appartenenti al Corpo, essa nasceva più che da una deontologia, da una motivazione totale e da un fortissimo coinvolgimento umano.
La seconda va scritta a decenni di impegni disattesi da parte di governi che avevano omesso di dedicare ai Vigili del fuoco gli impegni più doverosi ed essenziali. È noto che l’orario di servizio del tempo di guerra (i famosi turni di 24 ore) venne modificato ben 31 anni dopo la fine del conflitto.
Per effetto di una proterva ed ottusa burocrazia ministeriale non veniva concessa ai comandi provinciali ed agli organi periferici alcuna autonomia, né tantomeno la si concedeva ai responsabili delle unità operative.
Basti considerare le disposizioni sullo spostamento delle colonne mobili.
I fatti si commentano da soli. Ricordo con grande pena quei giorni.
Dopo alcune settimane, finalmente ebbi l’ordine di raggiungere il settore in cui operava la nostra colonna mobile. Per circa un mese mi fu affidato il comando del campo Lombardia/Sicilia.
Ancora erano evidenti le carenze logistiche cui si contrapponeva l’impegno di tanti ragazzi che non si risparmiavano mai.
Non era più possibile trarre in salvo dei sopravvissuti ma ci si dedicava a compiti di una umanità dolorosa e spesso tragica, come la ricerca delle vittime e la loro pietosa ricomposizione, restituendo i corpi al alle persone care scampate alla catastrofe.
Si operava per recuperare poveri oggetti e misere suppellettili, patrimonio di una popolazione fondamentalmente povera che, con esemplare dignità chiedeva, facendosi riguardo, i nostri interventi.
Anche in quel contesto ogni impresa poteva essere rischiosa non essendo possibile impiegare autoscale o altri mezzi più moderni e sicuri.
Si doveva demolire e puntellare, ancora con il pericolo delle scosse di assestamento, con repliche a volte molto preoccupanti.
Nel nostro settore operavano alcune compagnie del genio dell’esercito della Repubblica federale tedesca, al loro confronto i nostri equipaggiamenti, soprattutto il vestiario, apparivano terribilmente inadeguati, così come la logistica.
Per chi avverte intimamente il legame con gli uomini di cui è il riferimento e di cui ha l’onore della responsabilità, certe situazioni erano motivo di una profonda umiliazione ed un costante dispiacere. Delle imprese di quegli uomini esiste una storia, raccontata con semplice generosità da loro stessi ed è raccolta in un testo che allego a questo ricordo.
Ricevemmo anche l’immancabile visita del politico di turno che venne ad elogiarci e, come da copione, a promettere, secondo una tradizione mai passata di moda.
Ma il rancore non si addice a chi della propria vita fa una missione, compiuta spesso con animo lieve, quello stesso animo che sa comprendere e condividere le amarezze altrui, non si addice a questi uomini che, anche nei momenti più difficili, sanno anche rasserenarsi per cose semplici e sanno ridere con l’ingenuità dei tempi della scuola.
A volte dopo tanti anni, mi tornano in mente e mi mancano molto i loro aneddoti e le loro conversazioni, piene di antica saggezza, e le canzoni, che cantavano mentre lavoravano per riparare un automezzo o sistemare una tenda.