Testimonianza di Michele Sforza.
IRPINIA, IL RACCONTO DI QUEI GIORNI
Nel pomeriggio del 23 novembre 1980 – era domenica – la giornata era piuttosto fredda e uggiosa.
In quei giorni mi trovavo in ferie nella mia città: Foggia. Andai da solo in giro a bordo della mia Fiat 850 Special per le sterminate campagne che circondavano la città, per scattare alcune immagini in bianco e nero di quella giornata grigia. Decisi di andare verso il mare e mi fermai lungo le sponde del torrente Cervaro per cogliere qualche dettaglio da fissare sulla mia gelatina. Non avevo granché voglia di fotografare perché la luce era davvero pessima per impressionare la pellicola.
Annoiato tornai a casa, rinfrancato dal fatto che quella sera con i miei amici saremmo andati a teatro. In cartellone c’era una commedia di Enzo Marchetti, oggi riconosciuto maestro del teatro popolare foggiano, ma che già da allora prometteva davvero bene.
Dopo la noia del pomeriggio mi trovavo spensierato con i miei amici per fare le solite quattro “vasche” lungo il viale XXIV Maggio, in attesa che aprissero le porte del teatro.
Alle 19,34, in quel preciso momento ci trovavamo davanti alla Farmacia della Stazione e stavo guardando la colonnina della temperatura e dell’umidità. Ricordo che mentre leggevo i gradi, per un inspiegabile fenomeno vidi l’ingresso della farmacia spostarsi prima a destra e poi a sinistra, per poi andare di nuovo a destra. Quasi nello stesso momento un orribile schianto di vetri infranti attirò la mia attenzione e mi fece roteare la testa a sinistra verso la vetrina del bar di fianco. Un signore terrorizzato uscì in strada proprio da quella vetrina e con un bicchiere in mano. Si! Aveva sfondato la vetrina preso dal panico e dalla necessità di uscire. Il suo aperitivo oltre ai cubetti di ghiaccio avrà avuto anche qualche scheggia di cristallo.
Capimmo che era accaduto qualcosa di non comune. Profondamente turbati pensammo ad un terremoto, ma non sapevamo se ridere della situazione per quell’uomo in strada inebetito con un bicchiere in mano che aveva appena sfondato col corpo un’enorme vetrata, oppure agitarci per quella che aveva tutta l’aria di una violenta scossa. Non avemmo in ogni caso il tempo di avere né l’una né l’altra reazione perché la gente cominciò a precipitarsi in strada dai locali e dalle abitazioni, dandoci la conferma che sì era stato proprio una scossa di terremoto.
Sgomenti ci aggiravamo, come tutti, senza sapere cosa fare in un ambiente che immediatamente aveva assunto un’aria surreale e violenta nei comportamenti irrazionali della gente. La banalità di un gesto, un atto come quello di guardare un barometro, ormai strideva brutalmente con quello che si manifestava per le strade. Il senso di impotenza veniva amplificato anche dall’assenza di notizie.
I TG della sera parlarono soprattutto di qualche casa crollata nel centro storico di Napoli, ma non c’era di che preoccuparsi perché erano case vuote e già pericolanti. Nessuno sapeva cosa realmente era accaduto tra le valli e i picchi della provincia campana.
Solo nella tarda serata cominciarono ad arrivare le notizie di un violento terremoto con magnitudo di circa 6,9 gradi Richter e del X grado della scala Mercalli, tra l’Irpinia, la Basilicata nord occidentale e la Puglia, in particolare la provincia di Foggia che si trova proprio a ridosso della provincia di Avellino. Causò un numero impressionante di 2.914 morti e di sfollati.
Le immagini del cataclisma e della disperazione della gente, trasmesse in tivù il giorno dopo, ci sbatterono in faccia la reale dimensione del disastro.
Partii per rientrare presso il mio Comando a Torino.
Annaspando non poco si mise in moto la macchina del soccorso. All’epoca la protezione civile era ancora solo un concetto e non una sostanza. Migliaia di vigili del fuoco da tutta Italia partirono con vecchi e farraginosi catenacci. Tanti si fermarono umiliati ai bordi delle strade senza neanche poter mettere le frecce di stazionamento. Ancora una volta ciò che salvò la decenza fu la straordinaria voglia di quelle migliaia di uomini decisi a tutto pur di tirare fuori dalle macerie ancora qualcuno in vita.
Sguazzavamo per giorni nel fango che inondava le nostre tende, Non faceva granché differenza camminare fuori o tra i nostri giacigli, sotto tende di tela marrone che servirono per le grandi calamità di trent’anni prima. Le stesse del Polesine, le stesse del Vajont, di Firenze, del Friuli.
Venni inviato con altri colleghi verso la metà di dicembre, dopo un allucinante e terrificante viaggio fatto su di un vecchio pullman, seduto per ore su uno dei piccoli strapuntini nel corridoio centrale.
Quegli uomini che ancora poche ore prima badavano alle loro necessità quotidiane quasi con banalità, assunsero presto un aspetto quasi cavernicolo con barbe incolte, denti non lavati per mancanza di acqua. I nostri bisogni li facevamo nei prati o nei parcheggi o tra gli spalti dello stadio di Avellino. I bagni, dopo le prime ore, non sopportarono l’urto dei bisogni fisiologici di migliaia di uomini. Attorno allo stadio eravamo accampati noi del Piemonte, i colleghi del Lazio, quelli della Sardegna e dell’Emilia e chissà di quale altra regione.
Il freddo e l’umidità ci sopraffece feroce. Eravamo calati dal freddo nord con giacchettine, camicie e cravatte, perché quella era la dotazione ordinaria. L’esasperazione ci fece intentare uno sciopero bianco – il soccorso però si faceva ugualmente – per ottenere almeno una parvenza di protezione dai rigori.
Comico!
Ci arrivarono camionate di eskimo verdi. Non sapevamo se ridere o piangere. Eravamo diventati d’un colpo tutti estremisti di sinistra. Persino i colleghi un po’ destroidi si piegarono ad indossarli, vinti dalla necessità di battere meno i denti. Evidentemente il ventennio, “duro e puro” non aveva lasciato un grande temperamento nel corpo e nello spirito di quei colleghi con la tendenza ad alzare la mano destra per salutare.
Oggi rivedere nelle vecchie foto questi colleghi dalla facile mano alzata sul braccio disteso indossare l’eskimo, è davvero comico. Un po’ meno per loro.
Io. Giovane pompiere, preparavo i pasti per i circa 400 colleghi piemontesi sotto una di quelle tende-dormitorio, con ciò che si riusciva ad avere da cucinare. Come cucina avevamo una “Biffani”, una cucina da campo di derivazione militare, di quelle che si usavano in guerra. Non dico ciò che cascava nelle pentole quando, per necessità, si dovevano sollevare i coperchi. Nella pasta alla carbonara c’era più nerofumo per la cattiva combustione del bruciatore a gasolio, che ciccioli o uova.
Al mattino cercavo di imbastire anche la cena così quando potevo invece di riposarmi in tenda nella pausa del pomeriggio, mi aggregavo ai colleghi che andavano a scavare.
Il grande incoraggiamento ad andare avanti ci arrivava dalla gente comune che ci manifestava come poteva, anche con poveri ma significativi gesti, la loro gratitudine per essere lì a dargli una mano e a farli sperare che un giorno tutto sarebbe andato a posto. Una bottiglia di vino, un barattolo di conserve, qualche biscotto.
Nel campo Piemonte adottammo una nostra personale mascotte: Salvatore, un ragazzino dall’intelligenza svelta che “campeggiava” con noi tutto il giorno insieme a sua madre e ai suoi innumerevoli fratelli.
Condividevamo con loro i pasti almeno il problema del mangiare per loro non si poneva.
Nel pomeriggio del 23 novembre 1980 – era domenica – la giornata era piuttosto fredda e uggiosa.
In quei giorni mi trovavo in ferie nella mia città: Foggia. Andai da solo in giro a bordo della mia Fiat 850 Special per le sterminate campagne che circondavano la città, per scattare alcune immagini in bianco e nero di quella giornata grigia. Decisi di andare verso il mare e mi fermai lungo le sponde del torrente Cervaro per cogliere qualche dettaglio da fissare sulla mia gelatina. Non avevo granché voglia di fotografare perché la luce era davvero pessima per impressionare la pellicola.
Annoiato tornai a casa, rinfrancato dal fatto che quella sera con i miei amici saremmo andati a teatro. In cartellone c’era una commedia di Enzo Marchetti, oggi riconosciuto maestro del teatro popolare foggiano, ma che già da allora prometteva davvero bene.
Dopo la noia del pomeriggio mi trovavo spensierato con i miei amici per fare le solite quattro “vasche” lungo il viale XXIV Maggio, in attesa che aprissero le porte del teatro.
Alle 19,34, in quel preciso momento ci trovavamo davanti alla Farmacia della Stazione e stavo guardando la colonnina della temperatura e dell’umidità. Ricordo che mentre leggevo i gradi, per un inspiegabile fenomeno vidi l’ingresso della farmacia spostarsi prima a destra e poi a sinistra, per poi andare di nuovo a destra. Quasi nello stesso momento un orribile schianto di vetri infranti attirò la mia attenzione e mi fece roteare la testa a sinistra verso la vetrina del bar di fianco. Un signore terrorizzato uscì in strada proprio da quella vetrina e con un bicchiere in mano. Si! Aveva sfondato la vetrina preso dal panico e dalla necessità di uscire. Il suo aperitivo oltre ai cubetti di ghiaccio avrà avuto anche qualche scheggia di cristallo.
Capimmo che era accaduto qualcosa di non comune. Profondamente turbati pensammo ad un terremoto, ma non sapevamo se ridere della situazione per quell’uomo in strada inebetito con un bicchiere in mano che aveva appena sfondato col corpo un’enorme vetrata, oppure agitarci per quella che aveva tutta l’aria di una violenta scossa. Non avemmo in ogni caso il tempo di avere né l’una né l’altra reazione perché la gente cominciò a precipitarsi in strada dai locali e dalle abitazioni, dandoci la conferma che sì era stato proprio una scossa di terremoto.
Sgomenti ci aggiravamo, come tutti, senza sapere cosa fare in un ambiente che immediatamente aveva assunto un’aria surreale e violenta nei comportamenti irrazionali della gente. La banalità di un gesto, un atto come quello di guardare un barometro, ormai strideva brutalmente con quello che si manifestava per le strade. Il senso di impotenza veniva amplificato anche dall’assenza di notizie.
I TG della sera parlarono soprattutto di qualche casa crollata nel centro storico di Napoli, ma non c’era di che preoccuparsi perché erano case vuote e già pericolanti. Nessuno sapeva cosa realmente era accaduto tra le valli e i picchi della provincia campana.
Solo nella tarda serata cominciarono ad arrivare le notizie di un violento terremoto con magnitudo di circa 6,9 gradi Richter e del X grado della scala Mercalli, tra l’Irpinia, la Basilicata nord occidentale e la Puglia, in particolare la provincia di Foggia che si trova proprio a ridosso della provincia di Avellino. Causò un numero impressionante di 2.914 morti e di sfollati.
Le immagini del cataclisma e della disperazione della gente, trasmesse in tivù il giorno dopo, ci sbatterono in faccia la reale dimensione del disastro.
Partii per rientrare presso il mio Comando a Torino.
Annaspando non poco si mise in moto la macchina del soccorso. All’epoca la protezione civile era ancora solo un concetto e non una sostanza. Migliaia di vigili del fuoco da tutta Italia partirono con vecchi e farraginosi catenacci. Tanti si fermarono umiliati ai bordi delle strade senza neanche poter mettere le frecce di stazionamento. Ancora una volta ciò che salvò la decenza fu la straordinaria voglia di quelle migliaia di uomini decisi a tutto pur di tirare fuori dalle macerie ancora qualcuno in vita.
Sguazzavamo per giorni nel fango che inondava le nostre tende, Non faceva granché differenza camminare fuori o tra i nostri giacigli, sotto tende di tela marrone che servirono per le grandi calamità di trent’anni prima. Le stesse del Polesine, le stesse del Vajont, di Firenze, del Friuli.
Venni inviato con altri colleghi verso la metà di dicembre, dopo un allucinante e terrificante viaggio fatto su di un vecchio pullman, seduto per ore su uno dei piccoli strapuntini nel corridoio centrale.
Quegli uomini che ancora poche ore prima badavano alle loro necessità quotidiane quasi con banalità, assunsero presto un aspetto quasi cavernicolo con barbe incolte, denti non lavati per mancanza di acqua. I nostri bisogni li facevamo nei prati o nei parcheggi o tra gli spalti dello stadio di Avellino. I bagni, dopo le prime ore, non sopportarono l’urto dei bisogni fisiologici di migliaia di uomini. Attorno allo stadio eravamo accampati noi del Piemonte, i colleghi del Lazio, quelli della Sardegna e dell’Emilia e chissà di quale altra regione.
Il freddo e l’umidità ci sopraffece feroce. Eravamo calati dal freddo nord con giacchettine, camicie e cravatte, perché quella era la dotazione ordinaria. L’esasperazione ci fece intentare uno sciopero bianco – il soccorso però si faceva ugualmente – per ottenere almeno una parvenza di protezione dai rigori.
Comico!
Ci arrivarono camionate di eskimo verdi. Non sapevamo se ridere o piangere. Eravamo diventati d’un colpo tutti estremisti di sinistra. Persino i colleghi un po’ destroidi si piegarono ad indossarli, vinti dalla necessità di battere meno i denti. Evidentemente il ventennio, “duro e puro” non aveva lasciato un grande temperamento nel corpo e nello spirito di quei colleghi con la tendenza ad alzare la mano destra per salutare.
Oggi rivedere nelle vecchie foto questi colleghi dalla facile mano alzata sul braccio disteso indossare l’eskimo, è davvero comico. Un po’ meno per loro.
Io. Giovane pompiere, preparavo i pasti per i circa 400 colleghi piemontesi sotto una di quelle tende-dormitorio, con ciò che si riusciva ad avere da cucinare. Come cucina avevamo una “Biffani”, una cucina da campo di derivazione militare, di quelle che si usavano in guerra. Non dico ciò che cascava nelle pentole quando, per necessità, si dovevano sollevare i coperchi. Nella pasta alla carbonara c’era più nerofumo per la cattiva combustione del bruciatore a gasolio, che ciccioli o uova.
Al mattino cercavo di imbastire anche la cena così quando potevo invece di riposarmi in tenda nella pausa del pomeriggio, mi aggregavo ai colleghi che andavano a scavare.
Il grande incoraggiamento ad andare avanti ci arrivava dalla gente comune che ci manifestava come poteva, anche con poveri ma significativi gesti, la loro gratitudine per essere lì a dargli una mano e a farli sperare che un giorno tutto sarebbe andato a posto. Una bottiglia di vino, un barattolo di conserve, qualche biscotto.
Nel campo Piemonte adottammo una nostra personale mascotte: Salvatore, un ragazzino dall’intelligenza svelta che “campeggiava” con noi tutto il giorno insieme a sua madre e ai suoi innumerevoli fratelli.
Condividevamo con loro i pasti almeno il problema del mangiare per loro non si poneva.